Accanto alle vie affollate, se ci si ferma a guardare, ci sono sempre isole di vuoto. Anche nelle grandi città, nei luoghi più caotici. Sabato scorso ero a Milano: alle dieci di sera, mi sono trovato in mezzo alla folla che popola i Navigli; ma è bastata una deviazione, pochi metri in una strada oscura, ed eccomi in una via che pareva rubata a un villaggio. Mi sono fermato a respirare. Dopo un po’, anche quella zona desolata ha mostrato di essere viva.
Per prima cosa un neonato ha cominciato a piangere. I genitori, che stavano spingendo la carrozzina, si sono chinati sulla bimba, chiamandola per nome, cercando di placarla. Poi la madre, con gesti misurati, esperti, ha indossato un’apposita imbracatura e ha collocato la figlia contro il suo corpo, sotto il cappotto. Quasi istantaneamente la bambina ha smesso di piangere. La scena è avvenuta vicino a un lampione, mentre io stavo dall’altra parte della strada. Ho alzato gli occhi e ho visto, nel muro di un caseggiato, il riquadro luminoso di una finestra: c’era una stanza da bagno con un boiler, una parete piastrellata e uno specchio. Davanti allo specchio, una ragazzina fra gli undici e i tredici anni si stava lavando i denti; nello stesso tempo ascoltava musica con gli auricolari del telefono, accennando qualche movimento di danza. A un certo punto si è messa a cantare: usava lo spazzolino come se fosse un microfono e sperimentava nello specchio qualche espressione da rock star.
Ho ripreso a camminare. Mentre tornavo alla mia automobile, ripensavo alla scena. Come se ci fosse la mano di un regista, in pochi secondi si era dispiegato davanti ai miei occhi un piccolo universo al femminile: la bimba che strilla, il sorriso della giovane madre, i suoi gesti sapienti, e infine la ragazzina che si lascia trascinare dalla musica, sognando forse di essere su un palcoscenico (ma ignara di me, il suo unico spettatore).
Le manifestazioni dell’animo femminile, per quanto uno passi la vita a studiarle, conservano sempre un lembo di ignoto. Tutto è misterioso: lo strillo e la paura della bimba, la tenerezza della madre, la vitalità della ragazza che canta nello spazzolino. Quest’ultimo caso, in particolare, è forse un esempio di come lo spirito femminile sia capace di trasfigurare la realtà. Anche nelle situazioni più impensate o più banalmente quotidiane, una delle maggiori forze della femminilità mi pare proprio questa profonda capacità immaginativa, questa tensione a cambiare le cose senza il fracasso di gesta roboanti, ma con una adesione potente alla propria intimità.
Spinto da questi pensieri, ho ripreso in mano un saggio di Grazia Livi: Da una stanza all’altra. Woolf, Austen, Dickinson, Percoto, Mansfield, Nin. Sei maniere diverse di affrontare il conflitto fra vita quotidiana e vocazione alla scrittura. Edito da Garzanti nel 1984, il libro racconta sei figure femminili, mettendo l’accento sulla loro diversità rispetto all’ambiente nel quale vivevano. Si parte da Virginia Woolf e dal suo desiderio di una stanza tutta per sé, in cui riflettere, lavorare, soprattutto desiderare, desiderare sempre il vero, attenderlo laboriosamente, distillare poche parole. Secondo Grazia Livi, dentro ognuna di queste donna preme il bisogno di far confluire tutto ciò che accade al centro della propria persona. Il bisogno di essere vigile, assorta, silenziosa, riunita. Il bisogno di stare in disparte, per preservare la sua crescita, per far germogliare il seme.
Per queste autrici la difficoltà era anche sociale e culturale. Ma neppure oggi è facile accedere a questa stanza privata; se lo fosse in senso materiale, resterebbero i legami invisibili, l’eterna connessione in cui siamo immersi. Questo vale non solo per chi scrive. Credo che ogni persona, in certe circostanze, senta l’esigenza di una stanza tutta per sé e di qualcuno con cui, nei tempi e nei modi appropriati, condividere questo spazio di riflessione, di creatività.
È chiaro che per una come Emily Dickinson (1830-86) non doveva essere semplice trovare persone (anime, avrebbe detto lei) con cui avere una corrispondenza di pensieri e sentimenti. Lei stessa se ne accorgeva, captando qualche perplessità nelle conversazioni. Io sono colei a cui tutti dicono: cosa? Pochi riuscirono a intravedere che cosa si nascondesse sotto quel silenzioso vulcano. Scrisse in una delle sue millesettecentosettantacinque poesie (scoperte dopo la sua morte): Sul mio vulcano cresce l’erba: / luogo contemplativo / parrebbe a tutti, adatto / al nido di un uccello. / Come dentro lingueggi rosso il fuoco, / come precaria sia la zolla / se lo svelassi, subito il terrore / invaderebbe la mia solitudine. (Ecco qui il testo originale). In generale, l’immagine del vulcano si addice anche ad altre scrittrici. Prendiamo Jane Austen (1775-1817), di cui Grazia Livi descrive bene non solo il primo impeto creativo giovanile (di cui parlerò un’altra volta) ma anche il lavoro in età più matura, in mezzo a mille distrazioni.
La sua caratteristica, agli occhi dei nipoti, è l’amabilità. Solo a volte, entrando all’improvviso nel salottino, zia Jane appare diversa. Se ne sta al tavolino assorta, accigliata, quasi fosse intenta a un segreto. «Che stai facendo, zia?» chiede Fanny. «Nulla, nulla. Pensavo.» La creatività, che scorre serena sulla carta nel silenzio di certi mattini, non è un fatto comunicabile, è un fatto personalissimo. Non solo. È una scelta vivificante, che appartiene alla sfera interiore, alla sfera dell’equilibrio. Spiegarla è impossibile. Inoltre lei, essendo nubile, non ha alcun diritto di pronunziare la parola “io” ad alta voce. «Zia, si può giocare insieme? O vuoi che ritorni più tardi?» «Ma no, cara, resta, resta.» Si è già tolti gli occhiali, li ripone dentro l’astuccio di raso. «Ti do noia? Stavi forse scrivendo?» insiste Fanny affettuosamente. «Figurati! Neanche per sogno» e Jane, sorridente, è già in piedi, dopo aver fatto scivolare un foglio sotto la carta asciugante.
La metafora del vulcano si addice bene a queste autrici, ma può essere utile anche per avvicinare persone più elusive, lontane da ogni manifestazione artistica. Di recente ho studiato la figura di Teresa Manganiello (1849-76), di cui mi sono trovato a raccontare la storia nel volume La beata analfabeta.
Non è stato facile scriverne, perché la sua fu una vita nascosta, un vulcano di cui a prima vista era difficile scorgere il fuoco. Di certo Teresa aveva una sensibilità religiosa, una tensione spirituale e una capacità mistica che la rendevano diversa dalle sue coetanee. Contadina, povera, analfabeta, in che modo avrà saputo gestire la sua singolarità? In che modo avrà conciliato le esigenze della vita quotidiana con lo slancio creativo? Si può essere creativi pure senza conoscere l’alfabeto; e Teresa, così ho immaginato nel romanzo, deve avere avvertito fin da bambina un misterioso divario: Le sue amiche le danno una spinta, la invitano a correre più forte. Teresa le segue, e ride con loro, ma sente dentro di lei la ferita della differenza. Sono nate nello stesso anno, hanno visto le stesse cose e hanno più o meno gli stessi parenti. Com’è possibile che Teresa si senta così sola?
Vorrei concludere parlandovi di un’altra figura femminile, un altro vulcano che, in qualche modo, riuscì a illuminare il cielo con la sua musica: Mary Lou Williams (1910-81). In un mondo fortemente maschile, com’era la musica jazz agli inizi del Novecento, riuscì a emergere come pianista, come compositrice e come arrangiatrice. Con grande apertura mentale e versatilità, seppe poi rinnovarsi di continuo, passando da uno stile all’altro, dallo swing di Andy Kirk, Earl Hines e Benny Goodman al bop di Dizzy Gillespie fino al free jazz di Cecil Taylor. Oltre ad avere in qualche modo influenzato alcuni grandi musicisti (Thelonius Monk, per dirne uno), ne aiutò molti in difficoltà per problemi di alcol e droga. Duke Ellington diceva che era perpetually contemporary, sempre attuale, e la definì in questo modo: She is like a soul on soul (come l’anima all’ennesima potenza). Il critico Enrico Bettinello scrive che spesso si è usata la parola anima per parlare di Mary Lou Williams. E si capisce perché: basta ascoltare due minuti di un qualunque blues, registrato da Mary Lou Williams un anno prima di morire…
Mi piace immaginare che questo blues esprima uno slancio verso la libertà, la creatività, la forza dell’immaginazione: questa musica, in qualche modo, è uscita da una stanza tutta per sé. E chissà, magari quella ragazzina, in quella via oscura di Milano, con il suo spazzolino-microfono, apprezzerebbe il tocco deciso e il fraseggio soulful di Mary Lou Williams.
PS: Del romanzo La beata analfabeta, e quindi anche di Teresa Manganiello, avevo già parlato qui.
PPS: Le citazioni di Virginia Woolf, Emily Dickinson e Jane Austen provengono dal volume di Grazia Livi, di cui ho già dato le indicazioni bibliografiche (e di cui riparlerò prima o poi). La lirica di Emily Dickinson la trovate anche, con una traduzione diversa, in Poesie (Mondadori 1995). Il saggio di Virginia Woolf intitolato A Room of One’s Own (“Una stanza tutta per sé”) fu pubblicato per la prima volta il 24 ottobre 1929. La citazione di Duke Ellington è tratta dalla sua autobiografia Music Is My Mistress (uscita nel 1973; pubblicata in italiano da Minimum fax con il titolo La musica è la mia signora nel 2007 e poi nel 2014). La frase di Enrico Bettinello proviene da Storie di jazz (Arcana 2015). Di Mary Lou Williams, per cominciare, non è male l’antologia Mary Lou Williams 1951-53 (Classics 2006): il suono è un po’ disturbato, ma l’anima è inconfondibile.
PPPS: L’immagine di Mary Lou Williams proviene da internet. Grazie a Martina per la foto del vulcano.