Terrain vague

Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma che cosa significa “scrittura creativa”? E tutti questi corsi, queste scuole, a che cosa servono? Spesso la domanda mi coglie impreparato e finisco per dare una risposta più teorica di quanto vorrei. Certo, ogni forma di scrittura in fondo è “creativa”, perciò il termine può sembrare quasi assurdo. Per giunta la pretesa d’insegnare un’attività artistica ha dei limiti evidenti: la tecnica può spingersi fino a un certo punto, ma poi la scrittura – come la musica, la pittura, il cinema – richiede un cammino di ricerca personale, allo scopo di favorire la maturazione negli anni di una propria voce, di un proprio stile.
In realtà non si tratta per me di un problema teorico, ma di un mestiere concreto. Da anni tengo laboratori nei licei o in altri contesti didattici, fra cui la Scuola Flannery O’Connor di Milano e la Scuola Yanez, che opera fra Italia e Svizzera. Con quale spirito, dunque, affronto il lavoro sui testi? Ci pensavo oggi mentre, fermo al semaforo, lasciavo che lo sguardo si perdesse in un terrain vague di fianco alla strada. È una fetta di prato incolto, con qualche vecchio albero da frutto e il ricordo di un sentiero nell’erba alta. Mi sono accorto di due cose. Primo, lasciare che gli occhi divaghino in quello spazio è per me un’abitudine, anche se finora l’avevo sempre fatto senza consapevolezza. Secondo, ho notato che il prato sta per andarsene. Sul terreno infatti sono comparse quelle che in Svizzera si chiamano modine: sono pali di legno o di metallo che, prima dell’avvio di un cantiere, disegnano nell’aria la forma che occuperà il futuro edificio.
Il terreno dunque è ancora incolto, ma ci vuole poco a immaginare il grande caseggiato che lo sostituirà. Comprendo che ciò significherà appartamenti, negozi, opportunità economiche. Ma è più forte di me: amo i terrains vagues e mi rattristo ogni volta che ne scompare uno. In italiano si chiamano spazi residuali, in inglese vacant land. Sono definiti dall’assenza, dalla mancanza di una funzione utile. Un terrain vague è un vuoto, un pezzo di natura dimenticato dentro la città, una svista geografica. La particolarità di questi frammenti è quella di avere un loro tempo, un loro ritmo segreto che non sempre si accorda a quello del contorno urbano. Ecco perché i terrains vagues mi fanno pensare alla “scrittura creativa”. Per me un laboratorio non ha solo lo scopo di aiutare uno scrittore a trovare la sua voce, né quello di fornire mezzi tecnici a chi voglia affinare gli strumenti del mestiere. I laboratori servono anche a controbilanciare un aspetto fondamentale della scrittura: la solitudine. È giusto che un autore conosca la solitudine, ma senza esagerare (altrimenti si rischia l’isolamento). È giusto che chi lavora con le parole approfondisca il valore del silenzio, ma sempre senza esagerare (altrimenti si rischia l’aridità). Nel laboratorio si approfondisce l’amore per la letteratura, come lettori prima che come autori. Il fatto di condividere un’esperienza non rende meno acuminato e solitario il lavoro di chi scrive, ma permette d’interrogarsi e di cogliere altri punti di vista.
La scrittura è come un terrain vague nel tessuto della quotidianità, uno spazio imprevisto, non riducibile a uno scopo immediato. Quando tengo un laboratorio, mi capita di avere intorno persone dai quindici agli ottant’anni (e anche oltre…), che fanno i mestieri più disparati e che vogliono scrivere per i motivi più differenti. Qualcuno vuole costruire racconti o romanzi, qualcun altro vuole raccontare di sé o tenere traccia dei suoi viaggi, altri ancora vogliono diventare lettori più attenti provando il gesto della scrittura. È come dedicarsi a uno strumento musicale: non tutti imparano a suonare il pianoforte per poi incidere un disco; spesso c’è soprattutto il desiderio di conoscere un nuovo tipo di linguaggio. Alla fine l’avvocato o il meccanico che frequenta un laboratorio non diventerà magari uno scrittore, ma è possibile (e auspicabile) che la passione per la letteratura lo aiuti a diventare un avvocato o un meccanico migliore.
Del resto anch’io prendo una lezione di saxofono una volta alla settimana, ma non ho certo intenzione di suonare in pubblico. Semplicemente, a volte uno sente l’esigenza di trovare un terrain vague. Allora occorre parcheggiare la macchina, allontanarsi dal traffico e oltrepassare il cancello chiuso.
Così ho fatto oggi. Ho scavalcato il recinto, ho superato una macchia di bambù e mi sono inoltrato nel vuoto. Le modine, da vicino, parevano dei totem. In mezzo al prato – benché si sentissero ancora le automobili – il vento e il fischio di un uccello mi hanno procurato una sensazione di silenzio, di lontananza dal mondo. È proprio a questo altrove, ho pensato, che approda chi si cimenta nella scrittura.


Ho raggiunto un albero da frutto, mi sono arrampicato sui rami più bassi e da lì ho contemplato il terrain vague. Mi sentivo come se guardassi verso il passato. Fra poco non ci saranno più né gli alberi né il vuoto; già ora, in mezzo ai rami, s’infila come un monito l’asta di metallo, a delimitare l’angolo di un muro o il vano di un garage. Passeranno gli anni e forse, in fila al semaforo, arriverò perfino a scordarmi che al posto del caseggiato c’era uno spazio incolto.
Ci sono tuttavia dei terrains vagues che, nella loro provvisorietà, hanno la capacità di restare. La lettura e la scrittura a ben vedere non servono a niente. La vita sembra fatta di cose ben più necessarie e giustificabili: cibo, contratti, amori, palestre, case, affari, figli, aperitivi, amicizie, vacanze… Insomma, perché scavalcare il cancello? Perché camminare nella terra di nessuno? La risposta non può essere teorica. Bisogna proprio andarci e sentire, sotto i nostri passi, il frusciare di quell’erbaccia inutile e preziosa.


PS: Qualche informazione per chi fosse interessato. Le lezioni della Scuola Flannery a Milano sono già in corso; ci si potrà iscrivere nuovamente all’inizio del 2018. La Scuola Yanez invece apre nuovi laboratori per l’autunno-inverno (trovate qui tutti i dettagli).

PPS: Ne approfitto per ringraziare le scuole e le associazioni che negli anni mi hanno chiamato per tenere lezioni o laboratori. Oltre a quelle che ho già menzionato, voglio citare anche Lalineascritta (Napoli). Il laboratorio fondato da Antonella Cilento festeggia i venticinque anni di attività: un traguardo importante e un segno di speranza per chi crede nella letteratura.

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La terrazza a vela

Un passero saltellava tra i merli del castello. / Nel cantiere vicino, una gru girò lentamente / e poi volò via. Quando mi sono imbattuto in questa breve poesia di Bruno Munari, ho sentito distintamente una specie di sssquish… è il suono che fa il mondo di ogni giorno quando, per un istante, un altro mondo si sovrappone, più impalpabile, più strano. È vero che spesso il mondo ci sembra uno, soltanto uno, inesorabilmente. Ma allora com’è possibile che ci siano merli e merli, una gru e un’altra gru?
Un’amica mi ha inviato una vignetta di Schulz in cui Charlie Brown, sentendosi molto giù, chiede alla perfida Lucy – nelle vesti di psichiatra – che cosa si possa fare quando non ci si sente a posto, quando la vita sembra tagliarti fuori. Lucy lo porta in cima alla collina e gli dice: Vedi l’orizzonte laggiù? Vedi quanto è grande questo mondo? Vedi quanto spazio c’è per tutti? Poi, dopo una pausa: Hai mai visto degli altri mondi? No, risponde Charlie Brown. E Lucy: Per quello che ne sai, questo è l’unico mondo che c’è, giusto? Charlie Brown: Giusto. Lucy: Non hai altri mondi in cui vivere… giusto? Charlie Brown: Giusto. Lucy: Sei nato per vivere in questo mondo… giusto? Charlie Brown: Giusto. Allora Lucy grida la sua risposta a squarciagola, come solo lei sa fare, facendo ruzzolare il povero Charlie Brown: BE’, ALLORA VIVICI! Alla fine, da brava psichiatra, Lucy esige da Charlie Brown cinque cents di compenso. Ma ha davvero ragione? Siamo davvero confinati nel mondo che riusciamo ad avvistare dalla collina, per quanto alta sia la nostra personale collina e per quanto poderosa sia la nostra vista?
Ogni atto creativo consiste nella ricerca di un altro mondo. Questo vale per chi racconta una storia, ma anche per chi dipinge, per chi compone una musica, per chi s’impegni in qualsiasi gesto artistico o scientifico (penso ai matematici, agli inventori). Non solo. Credo che la tensione verso altri mondi si manifesti pure in quei momenti in cui il pensiero scava nella profondità della nostra anima, cercando di capire chi siamo, oppure si rivolge con empatia e immaginazione verso gli altri, per comprenderli, per partecipare alla loro vita. Ogni innamoramento è creativo, ed è la ricerca di un altro mondo. Ogni attimo di felicità o di tristezza affina la nostra percezione: ci permette di udire l’eco di uno sssquish e d’intravedere il balenio degli universi che si affollano, invisibili, intorno alla nostra collina.
Certo, questi sbalzi sono pericolosi. Possono suscitare un sentimento di sentirsi-tagliato-fuori, come accade a Charlie Brown; o peggio ancora, possono indurre uno stato di schizofrenia, di alienazione, di depressione. Credo che la saggezza sia trovare l’equilibrio fra il qui e l’altrove, senza cancellare nessuno dei due poli. Non è facile, però. Nel momento in cui avvertiamo gli altri mondi, smettiamo di sentirci al sicuro. A volte per fortuna tutto si risolve con un sorriso, come nella poesia di Bruno Munari. A volte, addirittura, lo sssquish consente di trasformare con la fantasia gli oggetti comuni che abbiamo intorno.
Per esempio, conosco una casa che ha una terrazza di legno proprio davanti alla porta. Per evitare di sedersi a picco sotto il sole, è possibile coprire la terrazza con un telo di colore bianco. Sarà per la posizione, in alto sopra una valle, sarà per i pali che ricordano gli alberi di una barca, sarà per il telo che sembra una vela… insomma, certe volte – in piedi sulla terrazza – ho la sensazione di stare sulla prua di una nave: invece di prati, contemplo oceani. L’effetto aumenta nelle giornate di vento, quando la vela si gonfia e i cavi, tendendosi, emettono lo stesso cigolio che udivano i marinai di Cristoforo Colombo, di Magellano, di Vasco da Gama. Allora, per qualche secondo, mi sembra di sentire muoversi sotto di me le assi di legno, mentre il sole che scintilla sui vetri delle automobili diventa un riflesso di luce sulla cresta delle onde.


Non vorrei ridurre la percezione di un altrove a una sorta di gioco. Ma è vero che, insieme al pericolo dell’alienazione, la creatività (ossia la tensione verso altri mondi) porta con sé un aspetto ludico. Direi che in questo caso la metafora del viaggio funziona bene: viaggiare è svelare altri mondi, anche restando fermi. Diceva la scrittrice Cristina Campo che percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E aggiungeva: ma che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?

PS: La poesia di Munari si trova in Verbale scritto (Corraini 2008; prima edizione Il Melangolo 1992). La frase di Campo proviene dal saggio Una rosa, in Gli imperdonabili (Adelphi 2008). La vignetta di Schulz l’ho ricevuta con un messaggio, quindi non saprei indicarne di preciso la fonte (ma di sicuro c’è qualche possibilità di trovarla sfogliando quest’opera in dodici volumi: Charles Schulz, Snoopy e la sua gang. Tutte le strisce dei Peanuts 1960-2000, Mondadori 2007). La canzone di Francesco De Gregori, un buon accompagnamento per ogni tipo di viaggio, è tratta dall’album Viva l’Italia (RCA 1979).

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Il respiro e la voce

Quando ascolto la musica di John Coltrane, mi sembra di cogliere una fatica e una meraviglia. Fatica: lo sforzo e l’incessante sfida tecnica; meraviglia: la dolcezza di certi passaggi, l’incanto dell’ingranaggio armonico e melodico. Mi chiedo allora se fatica e meraviglia non siano i due poli da cui nasce ogni forma artistica, compresa la letteratura.
In effetti, il mio primo ricordo è la fatica. Da bambino, come succede a molti mancini, formavo le lettere al contrario e creavo grovigli invece di parole: lo slancio di ciò che volevo dire era frenato da quelle aste, da quelle arcane linee ricurve.
Ancora oggi c’è una frizione nel momento in cui ciò che avverto dentro di me, come potenzialità indefinita, trova un modo di espressione, uno solo, con tutti i suoi limiti. Quello che appare sulla pagina è sempre diverso da quello che avevo in mente: prima di tutto perché ciò che scrivo esiste, mentre ciò che penso è come una vela che passa in lontananza. Dare voce ai personaggi, costruire una storia mi suscita meraviglia: in fondo né la storia né i personaggi mi appartengono; semplicemente, li ho trovati lungo la via.
Ascoltare Coltrane è diventato un modo d’interrogarmi sul mio lavoro. All’inizio non me ne rendevo conto: ero soltanto stupito da quel saxofono insieme impetuoso e limpido, fluviale, serio, sempre teso alla ricerca di qualcosa. Ero studente e vivevo a Zurigo quando, per caso, mi trovai ad ascoltare A love supreme (Impulse 1964). Si tratta della sua opera forse più celebre: una suite divisa in quattro parti (Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Psalm), che è allo stesso tempo Canzona di ringraziamento (come l’avrebbe definita Beethoven), professione di fede, autentica dichiarazione di gioia spirituale, applicazione delle ricerche di Coltrane nel campo della modalità e molto altro ancora (così Carlo Boccadoro nel suo Jazz, Einaudi 2005). A emozionarmi era soprattutto la parte finale, Psalm. Nella mia ignoranza musicale, mi colpiva soprattutto il suono, dolente, misterioso, e le frasi ripetute sopra il rimbombo dei timpani, gli accordi del pianoforte, il lungo strascinio dei piatti. Anni dopo, leggendo qualche libro su Coltrane e in particolare su A love supreme, scoprii che in Psalm il saxofonista suonò avendo in mente un testo scritto da lui stesso, riportato nel libretto del disco. Sotto la musica, insomma, si nascondevano le parole, e la musica le portava oltre, espandeva il loro significato.

John Coltrane ebbe una vita breve. Nato il 23 settembre 1926, morì a quarantun anni il 17 luglio 1967. I suoi primi dischi come leader uscirono nel 1957: negli ultimi dieci anni di vita continuò a esplorare strade impervie, in una continua, bruciante evoluzione, sorprendendo – e talvolta sconcertando – il suo pubblico. Lui stesso, in un’intervista, definì il suo metodo di lavoro: Parto da un punto e vado il più lontano possibile. La musica di Coltrane (insieme a quella di molti altri) è per me un’esortazione a percorrere strade nuove, nel mio lavoro e nella mia vita. Questo non significa lasciarsi tutto alle spalle, ma cercare la novità anche nel fluire dell’abitudine. Come scrive il critico musicale Xavier Daverat, la ripetizione coltraniana è un fenomeno di memoria diretto verso l’avvenire. Si tratta di essere pronti a vivere la fatica, senza abbandonare la meraviglia. Lo stesso Coltrane diceva: Essere un musicista è un’esperienza davvero unica. Ti permette di andare molto, molto a fondo. La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono: la mia fede, il mio sapere, la mia essenza. E aggiungeva: Voglio parlare all’anima delle persone.

Di sicuro, Coltrane parlò all’anima di molte persone con la melodia commovente di Alabama, registrata il 18 novembre 1963 nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs (New Jersey). Poco più di un mese prima, il 15 settembre, il Ku Klux Klan aveva perpetrato un attentato in una chiesa battista a Birmingham, in Alabama, ed erano rimaste uccise quattro bambine.
Il brano Alabama si trova nell’album Coltrane Live at Birdland (Impulse 1963). Nelle note di copertina, lo scrittore Amiri Baraka (pseudonimo di LeRoi Jones) cita una frase dello stesso Coltrane secondo cui il pezzo rappresenta musicalmente qualcosa che ho visto laggiù e che da dentro di me si è trasferito nella musica. È impressionante sentire il lamento del sax sopra la batteria che cresce sullo sfondo come un fenomeno naturale… un tuono che si rinforza, nubi di tempesta o nubi di guerra nella giungla (Amiri Baraka). Protesta, canto, preghiera: s’intuisce il respiro spezzato dalla sofferenza, lo stupore di un uomo davanti all’assurdità del male. Ma il respiro diventa musica. Il respiro diventa bellezza. Il soffio risale dai polmoni, percorre il tubo del saxofono e piange per quelle bambine, piange per lo strazio di tutti gli attentati. Anche per quelli di oggi; Coltrane non poteva saperlo, ma nel suo pianto risuona il dolore per ogni violenza, per ogni bomba scagliata dall’odio. E in quel pianto l’umanità resiste, anche in mezzo al caos, e afferma una speranza. Il respiro diventa voce.

PS: La versione video di Alabama proviene da uno spettacolo televisivo statunitense del dicembre 1963. I musicisti sono gli stessi dell’album: John Coltrane al sax tenore, MCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria. Fra l’altro, è lo stesso quartetto che registrò A love supreme.

PPS: Senza far riferimento a Coltrane, ho parlato qui della mia personale esperienza di saxofonista (agguerrito, ma principiante…). La musica di Coltrane, insieme a quella di altri musicisti jazz, è una delle fonti d’ispirazione per il mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016). In particolare, ho parlato qui del brano In a sentimental mood (inciso da Coltrane nel 1962 con Duke Ellington).

PPPS: Ringrazio Lina per il saggio di scrittura. Le dichiarazioni di Coltrane provengono da vari libri: “Je pars d’un point et je vais le plus loin possible”. Entretiens avec Michel Delorme suivis d’une lettre à Don DeMichael (Éditions de l’éclat 2012); Coltrane secondo Coltrane. Tutte le interviste (2010, a cura di Chris DeVito; l’edizione italiana, stampata nel 2012, è a cura di Francesco Martinelli per EDT); Lewis Porter, Blue Train. La vita e la musica di John Coltrane (1998, traduzione italiana di Adelaide Cioni nel 2006 per Minimum Fax); Ashley Kahn, A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane (2002, traduzione italiana di Fabio Zucchella nel 2004 per Il Saggiatore; da questo volume ho preso alcune delle fotografie che vedete sopra). Ho citato anche Xavier Daverat, Tombeau de John Coltrane (Parenthèses 2012). Per chi volesse approfondire l’influenza di Coltrane sugli altri musicisti, può essere utile il dossier speciale John Coltrane 50 ans après, apparso sul numero 696 di “Jazz Magazine” (luglio 2017).

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Z

IMG_9567La casa è molto vecchia, con i muri di colore ocra e le imposte verdi. Dietro, comincia subito la montagna. Fra i cespugli e le rocce, una baracca che alloggia cinque grossi conigli. In alto, dove il pendio è più scosceso, la terra è umida: sotto il suolo si nasconde una sorgente. L’operaio portoghese che alleva i conigli sta lavorando per riportarla alla luce. È probabile che all’inizio del Novecento la fonte scorresse fino alla vasca di una fontana presso la casa. Ancora oggi nel quartiere si dice che fosse un’acqua fresca e buonissima, tanto che da lontano venivano al numero 14 di via Nocca, a Ravecchia, per riempire otri e bottiglie.
IMG_9569Il portoghese ogni tanto si arrampica sul pendio e appoggia delle assi contro il terreno, per evitare che la montagna frani sul pollaio. Qualche settimana fa, fermandosi un momento a riposare, ha notato qualcosa di strano in una lastra di pietra. Si è avvicinato e, osservando meglio, ha scoperto che qualcuno aveva inciso una parola. Mettendo il dito nei solchi è riuscito a leggere. Era un nome: FAZIOLI, scritto con la Z al contrario.
IMG_9575Il portoghese, incuriosito, ne ha parlato con il proprietario della casa. Questi si è ricordato che, più o meno cento anni fa, in quella casa viveva il mio bisnonno Benvenuto Fazioli con la sua famiglia. Ho già scritto di lui qui sul blog, raccontando come a quindici anni sia partito da Cremona, balzando su un treno in cerca di avventura. Per un po’ visse a Zurigo, poi si trasferì nel Canton Ticino. Mio nonno Luigi nacque a Bellinzona, proprio in via Nocca, e abitò al numero 14 fino all’adolescenza.
IMG_9563La casa è sempre la stessa, costruita a ridosso della roccia. Le cantine profonde e silenziose si addentrano nella montagna. Muovendo un passo nell’oscurità, ho l’impressione di venire accolto nella caverna senza tempo dove giacciono le cose che sono passate e quelle che devono ancora venire. Le pareti si perdono nel buio. Si percepisce che poco distante, nel cuore della terra, sgorga la sorgente, la stessa sorgente che ancora dipinge di verde l’erba e gli alberi e le montagne. La stessa che ogni anno accoglie la primavera. La sorgente che attraverso segni impercettibili suscita la trasformazione del mondo.
IMG_9571Anche il mio bisnonno, o uno dei suoi figli, volle lasciare un segno. La Z al contrario fa pensare che a scrivere sia stato un ragazzino, oppure un adulto non pratico di ortografia. Anch’io, forse perché sono mancino, ho passato anni a rovesciare la Z. Talvolta mi prende ancora la tentazione di partire da destra e scivolare verso sinistra, per poi scendere in diagonale e scivolare di nuovo a sinistra. Se ci penso, per me la zeta non è mai stata una consonante facile. Non lo è nemmeno oggi. La digito sulla tastiera del computer: Z. Sembra inoffensiva. Semplice. Perfino banale, con quegli angoli acuti e quella vibrazione sonora: Z Z Z. Ma dentro di me, la vivo al rovescio. Così:       .
IMG_9573Cento anni fa, vicino al canale con l’acqua fresca, quel lastrone di pietra sembrava un luogo propizio. Il mio antenato si avvicinò e con lo scalpello incise il suo nome. Poi, giorno dopo giorno, continuò a vivere secondo il ritmo inesorabile che pare fermo e che ti porta via: lavoro, riposo, disgrazie, gioia, domande, il profilo delle montagne, lo zoccolio dei cavalli, l’intreccio di voci al mercato, il fischio dei treni, il ronzio delle macchine all’officina, le voci dei figli sempre più spesse, poi le voci sottili dei nipoti, poi di nuovo l’estate, l’autunno, l’inverno, la primavera, fino al silenzio. Si sarà dimenticato del cognome inciso nel sasso? Qualcuno gli avrà detto della Z al contrario? Al momento di scomparire avrà pensato al fruscio della sorgente nelle notti estive, al rombo dei temporali, alla rugiada, al ghiaccio abbagliante delle mattine di gennaio? E prima di chiudere gli occhi, si sarà chiesto perché c’è qualcosa invece di niente?
IMG_9566Passano i decenni e nel quartiere abitano ancora dei Fazioli. Qualcuno è riuscito a raddrizzare la Z, qualcuno – come me – tende ancora al rovescio. La fontana è sempre lì, così come la sorgente, acquattata nel sottosuolo. Gli attuali Fazioli del quartiere, dai settanta ai cinque anni, non sono troppo diversi da Benvenuto, Ernesto, Albina, Luigi, Bruno, Rina (chiunque fra loro abbia inciso il nome nella pietra). Anche noi viviamo i giorni come novità e come ripetizione, anche noi percepiamo il fluire delle cose. Il tempo misurato con gli iPhone è sempre lo stesso che ticchettava dentro la pendola del salotto buono, dove si entrava in punta di piedi due o tre volte l’anno.
IMG_1222Tutto ciò che rimane, di quel Fazioli che incise il nome sulla pietra, è proprio il nome scalpellato (più qualche manciata di polvere giù al cimitero). Per anni e anni la scritta si confuse tra i sassi e i cespugli, si consumò, scomparve, venne quasi inghiottita dalla montagna. Poi arrivò un uomo dal Portogallo, apparvero i conigli, ed ecco che oggi quel nome torna a comunicare. Che cosa significa? Chissà. È mai possibile trovare il significato ultimo di un testo, di qualsiasi testo? Forse era un modo per dire “esisto”, o “abito qui”, oppure “ho scavato questo canale” o magari “pensate a me, quando passate da queste parti”, o anche “eccomi”, “sono vivo”, “sono innamorato”, “mi sto annoiando”, “mi piace quest’acqua fresca”, “chi sono io?”. È una voce che arriva dal passato, ed è più efficace di una macchina del tempo. Probabilmente il segno vuol dire nello stesso tempo tutte queste cose, e altre ancora.
IMG_9562Per questo la creatività è un gesto pericoloso. Quando si lascia un segno, di qualunque tipo, esso può resistere alla consunzione e all’oblio. Scrivere è un atto che implica responsabilità: quando tutto sembra avvolto nella penombra, le nostre parole appaiono nella mente di un’altra persona, distante nello spazio o nel tempo, e portano con loro domande, segrete ribellioni, paesaggi, la promessa di un’azione. Le parole scavalcano la mente, percuotono i sensi e s’infilano nell’anima, dove trovano un rifugio per maturare lentamente, come il vino nella cantina di roccia. Le parole diventano parte di noi e ci aiutano a ridere, a piangere, a resistere. A vivere, insomma; ad affrontare i giorni in cui la Z si presenta inesorabilmente diritta e a capire il mistero dei giorni in cui ci mostra una faccia che non comprendiamo. Una faccia assurda? Misteriosa? Spero di avere ancora un po’ di tempo per riflettere su tutto questo.

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PS: A un certo punto, sopra, avrei voluto scrivere una zeta al rovescio. Ma ciò che la natura mi consente di fare con facilità, la tecnologia mi sottrae. Sembra incredibile: con questo mio computer non è possibile scrivere una zeta alternativa! Forse chi ha creato il programma di scrittura la giudicava inutile? Eppure, non escluderei con tanta sicumera che nella vita non possa giungere un momento in cui si riveli opportuno (o perfino decisivo) esprimere – magari via mail – una bella Z maiuscola maestosamente rovesciata. Be’, comunque ho lasciato uno spazio vuoto. Usate pure la vostra immaginazione: createvi una zeta e poi, quando meno se l’aspetta, capovolgetela.

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PPS: Grazie a Fabio Casagrande, che mi ha fatto da guida lungo il viaggio nel tempo e che mi ha offerto una bottiglia del suo vino per aiutare la memoria. È stato lui a procurarmi anche l’immagine qui sopra: è una copia dal vero di autore sconosciuto, che raffigura la casa (con la fontana e il pendio) proprio all’epoca dell’incisione.

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Vulcani

Accanto alle vie affollate, se ci si ferma a guardare, ci sono sempre isole di vuoto. Anche nelle grandi città, nei luoghi più caotici. Sabato scorso ero a Milano: alle dieci di sera, mi sono trovato in mezzo alla folla che popola i Navigli; ma è bastata una deviazione, pochi metri in una strada oscura, ed eccomi in una via che pareva rubata a un villaggio. Mi sono fermato a respirare. Dopo un po’, anche quella zona desolata ha mostrato di essere viva.
img_7388Per prima cosa un neonato ha cominciato a piangere. I genitori, che stavano spingendo la carrozzina, si sono chinati sulla bimba, chiamandola per nome, cercando di placarla. Poi la madre, con gesti misurati, esperti, ha indossato un’apposita imbracatura e ha collocato la figlia contro il suo corpo, sotto il cappotto. Quasi istantaneamente la bambina ha smesso di piangere. La scena è avvenuta vicino a un lampione, mentre io stavo dall’altra parte della strada. Ho alzato gli occhi e ho visto, nel muro di un caseggiato, il riquadro luminoso di una finestra: c’era una stanza da bagno con un boiler, una parete piastrellata e uno specchio. Davanti allo specchio, una ragazzina fra gli undici e i tredici anni si stava lavando i denti; nello stesso tempo ascoltava musica con gli auricolari del telefono, accennando qualche movimento di danza. A un certo punto si è messa a cantare: usava lo spazzolino come se fosse un microfono e sperimentava nello specchio qualche espressione da rock star.
img_7469Ho ripreso a camminare. Mentre tornavo alla mia automobile, ripensavo alla scena. Come se ci fosse la mano di un regista, in pochi secondi si era dispiegato davanti ai miei occhi un piccolo universo al femminile: la bimba che strilla, il sorriso della giovane madre, i suoi gesti sapienti, e infine la ragazzina che si lascia trascinare dalla musica, sognando forse di essere su un palcoscenico (ma ignara di me, il suo unico spettatore).
Le manifestazioni dell’animo femminile, per quanto uno passi la vita a studiarle, conservano sempre un lembo di ignoto. Tutto è misterioso: lo strillo e la paura della bimba, la tenerezza della madre, la vitalità della ragazza che canta nello spazzolino. Quest’ultimo caso, in particolare, è forse un esempio di come lo spirito femminile sia capace di trasfigurare la realtà. Anche nelle situazioni più impensate o più banalmente quotidiane, una delle maggiori forze della femminilità mi pare proprio questa profonda capacità immaginativa, questa tensione a cambiare le cose senza il fracasso di gesta roboanti, ma con una adesione potente alla propria intimità.
img_7451Spinto da questi pensieri, ho ripreso in mano un saggio di Grazia Livi: Da una stanza all’altra. Woolf, Austen, Dickinson, Percoto, Mansfield, Nin. Sei maniere diverse di affrontare il conflitto fra vita quotidiana e vocazione alla scrittura. Edito da Garzanti nel 1984, il libro racconta sei figure femminili, mettendo l’accento sulla loro diversità rispetto all’ambiente nel quale vivevano. Si parte da Virginia Woolf e dal suo desiderio di una stanza tutta per sé, in cui riflettere, lavorare, soprattutto desiderare, desiderare sempre il vero, attenderlo laboriosamente, distillare poche parole. Secondo Grazia Livi, dentro ognuna di queste donna preme il bisogno di far confluire tutto ciò che accade al centro della propria persona. Il bisogno di essere vigile, assorta, silenziosa, riunita. Il bisogno di stare in disparte, per preservare la sua crescita, per far germogliare il seme.
Per queste autrici la difficoltà era anche sociale e culturale. Ma neppure oggi è facile accedere a questa stanza privata; se lo fosse in senso materiale, resterebbero i legami invisibili, l’eterna connessione in cui siamo immersi. Questo vale non solo per chi scrive. Credo che ogni persona, in certe circostanze, senta l’esigenza di una stanza tutta per sé e di qualcuno con cui, nei tempi e nei modi appropriati, condividere questo spazio di riflessione, di creatività.
dsc_7585È chiaro che per una come Emily Dickinson (1830-86) non doveva essere semplice trovare persone (anime, avrebbe detto lei) con cui avere una corrispondenza di pensieri e sentimenti. Lei stessa se ne accorgeva, captando qualche perplessità nelle conversazioni. Io sono colei a cui tutti dicono: cosa? Pochi riuscirono a intravedere che cosa si nascondesse sotto quel silenzioso vulcano. Scrisse in una delle sue millesettecentosettantacinque poesie (scoperte dopo la sua morte): Sul mio vulcano cresce l’erba: / luogo contemplativo / parrebbe a tutti, adatto / al nido di un uccello. / Come dentro lingueggi rosso il fuoco, / come precaria sia la zolla / se lo svelassi, subito il terrore / invaderebbe la mia solitudine. (Ecco qui il testo originale). In generale, l’immagine del vulcano si addice anche ad altre scrittrici. Prendiamo Jane Austen (1775-1817), di cui Grazia Livi descrive bene non solo il primo impeto creativo giovanile (di cui parlerò un’altra volta) ma anche il lavoro in età più matura, in mezzo a mille distrazioni.

La sua caratteristica, agli occhi dei nipoti, è l’amabilità. Solo a volte, entrando all’improvviso nel salottino, zia Jane appare diversa. Se ne sta al tavolino assorta, accigliata, quasi fosse intenta a un segreto. «Che stai facendo, zia?» chiede Fanny. «Nulla, nulla. Pensavo.» La creatività, che scorre serena sulla carta nel silenzio di certi mattini, non è un fatto comunicabile, è un fatto personalissimo. Non solo. È una scelta vivificante, che appartiene alla sfera interiore, alla sfera dell’equilibrio. Spiegarla è impossibile. Inoltre lei, essendo nubile, non ha alcun diritto di pronunziare la parola “io” ad alta voce. «Zia, si può giocare insieme? O vuoi che ritorni più tardi?» «Ma no, cara, resta, resta.» Si è già tolti gli occhiali, li ripone dentro l’astuccio di raso. «Ti do noia? Stavi forse scrivendo?» insiste Fanny affettuosamente. «Figurati! Neanche per sogno» e Jane, sorridente, è già in piedi, dopo aver fatto scivolare un foglio sotto la carta asciugante.

La metafora del vulcano si addice bene a queste autrici, ma può essere utile anche per avvicinare persone più elusive, lontane da ogni manifestazione artistica. Di recente ho studiato la figura di Teresa Manganiello (1849-76), di cui mi sono trovato a raccontare la storia nel volume La beata analfabeta.
la-beata-analfabetaNon è stato facile scriverne, perché la sua fu una vita nascosta, un vulcano di cui a prima vista era difficile scorgere il fuoco. Di certo Teresa aveva una sensibilità religiosa, una tensione spirituale e una capacità mistica che la rendevano diversa dalle sue coetanee. Contadina, povera, analfabeta, in che modo avrà saputo gestire la sua singolarità? In che modo avrà conciliato le esigenze della vita quotidiana con lo slancio creativo? Si può essere creativi pure senza conoscere l’alfabeto; e Teresa, così ho immaginato nel romanzo, deve avere avvertito fin da bambina un misterioso divario: Le sue amiche le danno una spinta, la invitano a correre più forte. Teresa le segue, e ride con loro, ma sente dentro di lei la ferita della differenza. Sono nate nello stesso anno, hanno visto le stesse cose e hanno più o meno gli stessi parenti. Com’è possibile che Teresa si senta così sola?
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Vorrei concludere parlandovi di un’altra figura femminile, un altro vulcano che, in qualche modo, riuscì a illuminare il cielo con la sua musica: Mary Lou Williams (1910-81). In un mondo fortemente maschile, com’era la musica jazz agli inizi del Novecento, riuscì a emergere come pianista, come compositrice e come arrangiatrice. Con grande apertura mentale e versatilità, seppe poi rinnovarsi di continuo, passando da uno stile all’altro, dallo swing di Andy Kirk, Earl Hines e Benny Goodman al bop di Dizzy Gillespie fino al free jazz di Cecil Taylor. Oltre ad avere in qualche modo influenzato alcuni grandi musicisti (Thelonius Monk, per dirne uno), ne aiutò molti in difficoltà per problemi di alcol e droga. Duke Ellington diceva che era perpetually contemporary, sempre attuale, e la definì in questo modo: She is like a soul on soul (come l’anima all’ennesima potenza). Il critico Enrico Bettinello scrive che spesso si è usata la parola anima per parlare di Mary Lou Williams. E si capisce perché: basta ascoltare due minuti di un qualunque blues, registrato da Mary Lou Williams un anno prima di morire…

Mi piace immaginare che questo blues esprima uno slancio verso la libertà, la creatività, la forza dell’immaginazione: questa musica, in qualche modo, è uscita da una stanza tutta per sé. E chissà, magari quella ragazzina, in quella via oscura di Milano, con il suo spazzolino-microfono, apprezzerebbe il tocco deciso e il fraseggio soulful di Mary Lou Williams.

PS: Del romanzo La beata analfabeta, e quindi anche di Teresa Manganiello, avevo già parlato qui.

PPS: Le citazioni di Virginia Woolf, Emily Dickinson e Jane Austen provengono dal volume di Grazia Livi, di cui ho già dato le indicazioni bibliografiche (e di cui riparlerò prima o poi). La lirica di Emily Dickinson la trovate anche, con una traduzione diversa, in Poesie (Mondadori 1995). Il saggio di Virginia Woolf intitolato A Room of One’s Own (“Una stanza tutta per sé”) fu pubblicato per la prima volta il 24 ottobre 1929. La citazione di Duke Ellington è tratta dalla sua autobiografia Music Is My Mistress (uscita nel 1973; pubblicata in italiano da Minimum fax con il titolo La musica è la mia signora nel 2007 e poi nel 2014). La frase di Enrico Bettinello proviene da Storie di jazz (Arcana 2015). Di Mary Lou Williams, per cominciare, non è male l’antologia Mary Lou Williams 1951-53 (Classics 2006): il suono è un po’ disturbato, ma l’anima è inconfondibile.

PPPS: L’immagine di Mary Lou Williams proviene da internet. Grazie a Martina per la foto del vulcano.

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