Pispillòria

Qualcuno dice che le parole scritte rimangono, mentre quelle pronunciate si perdono nell’aria. Talvolta mi chiedo se non sia vero il contrario. Quante frasi stanno scolorendo su carte ormai dimenticate? Quanti siti e quanti blog ammuffiscono nelle cantine di internet? Quando parlo a voce alta, invece, ho la sensazione che le parole in qualche modo sopravvivano. E se non proprio le parole stesse, almeno la loro eco. Una parola che esce dalla bocca è viva, come una trota guizzante che salta in un ruscello: è un attimo, ma dai bordi del torrente qualcuno – volpe, orso, pescatore – è già pronto ad acciuffarla.
Mentre camminavo verso la mia piazzetta rotonda, ho incrociato un uomo che parlava al telefono. Aveva la faccia seria, una ruga fra le sopracciglia. Allora ho fatto la foto a un maiale, stava dicendo, perché sai, lì alla fattoria era pieno di grossi maiali. E ha aggiunto: Poi gli ho scritto che… Purtroppo non sono riuscito a cogliere il resto, sebbene abbia teso le orecchie. Di certo l’uomo non saprà mai che le sue parole, così volatili, dette al telefono, sono sopravvissute e sono atterrate qui. Eccole: la parola foto e la parola maiale e la parola fattoria. Io, in compenso, non saprò mai perché quel distinto signore abbia voluto immortalare esemplari robusti di razza suina, né che cosa abbia poi scritto all’interlocutore al quale, si presume, ha inviato l’immagine.
La piazzetta d’ottobre, nel tardo pomeriggio, è affollata. La luce radente ha un colore caldo, come il riflesso di un focolare. Le aiuole risplendono del giallo e del rosso delle foglie, per metà ancora sugli alberi e per metà cadute nell’erba. Mentre i bambini ammucchiano le foglie e se le gettano addosso, i vecchietti si sono divisi in due gruppi, ai bordi opposti della piazza. Qualcuno nota che scarseggiano i posti a sedere ed esclama: Qui ci mancano dei tavolini! In effetti, la piazzetta ricorda un bar: il tempo strascicato, le chiacchiere, gli sfottò. Uno dei pensionati mi vede seduto con il mio libro e si avvicina per scattarmi una foto. Non si arrabbi, mi dice, volevo provare il telefono nuovo. Un amico, dalla panchina, gli grida: Ma poi non metterla su fesbùk! E un altro mi avvisa: Attento che quello la mette su uatsàppe! Il fotografo accenna al distributore, a duecento metri, e mi dice: Volevo solo tenere d’occhio il prezzo della benzina… Poi tenta di fotografare anche i suoi amici, suscitando vivaci proteste.
Sto leggendo Notti delle mille e una notte, di Nagib Mahfuz. L’autore egiziano si lascia ispirare dalla storia del sultano Shahriyàr. In seguito al tradimento di sua moglie, il despota sanguinario aveva preso l’abitudine di passare ogni notte con una fanciulla vergine, uccidendola poi all’alba. Finché la coraggiosa Shahrazàd, ben decisa a sopravvivere, comincia a incantare il sultano inanellando storie su storie e lasciandole in sospeso al sopraggiungere dell’alba. Alla fine, dopo mille e una notte di suspense, il feroce sultano accorda la grazia a Shahrazàd, divenuta nel frattempo madre dei suoi figli. E poi? Da questa domanda parte Mahfuz, immaginando le vicende quotidiane del regno di Shahriyàr. Non basta aver subito il fascino della narrazione; il sultano ha da compiere ancora un lungo cammino verso il pentimento e la saggezza.
Mahfuz evoca mercanti, facchini, navigatori, geni buoni o malvagi, ciabattini, capi della polizia e vagabondi, uomini ricchi e donne misteriose. Quando alzo gli occhi penso a questi personaggi, nati nel Medioevo e ancora vitali, tanto che posso immaginarli qui sulla piazzetta. I pensionati spettegolano su ogni persona che passa, discutono della Roma e della Juve, del canone radiotelevisivo, degli stipendi (troppo alti) percepiti dai municipali e del caldo fuori stagione. Non sono certo le stesse cose di cui si bisbigliava nei caffè del Cairo o di Baghdad… ma se il contenuto diverge, l’arte della chiacchiera è sempre uguale.


Arriva un autobus giallo carico di bambini al rientro da scuola. Per qualche minuto, le voci infantili sovrastano il cicaleccio dei pensionati. Chiudendo gli occhi, mi dico che pure le grida dei bambini riecheggiano uguali da sempre. Mentre i giovani si disperdono, gli anziani riprendono a tessere le loro conversazioni. Intuisco la presenza di una storia dietro ogni nome, dietro ogni ricordo. Proprio qui – nel cerchio della piazzetta o nel libro di Mahfuz (fa poca differenza) – è il luogo dove nascono i racconti.
Pier Paolo Pasolini osservava che ogni racconto delle Mille e una notte comincia con un’“apparizione” del destino, che si manifesta attraverso un’anomalia. Ora, non c’è anomalia che non ne produca un’altra. E così nasce una catena di anomalie. Più tale catena è logica, serrata, essenziale, più il racconto delle Mille e una notte è bello (cioè vitale, esaltante). La catena delle anomalie tende sempre a ritornare alla normalità. La fine di ogni racconto delle Mille e una notte consiste in una “disparizione” del destino, che si insacca nella felice sonnolenza della vita quotidiana. Secondo Pasolini, insomma, il protagonista delle storie è in realtà il destino stesso.
Che cos’è la quotidianità se non un susseguirsi di piccole anomalie? Basta poco perché una cosa accaduta oggi sveli il riflesso di storie più antiche. I personaggi e le vicende passano attraverso i mari e le montagne, e si ritrovano uguali in mezzo a popoli diversi, grazie alla forza prodigiosa della narrazione. È la stessa forza che ha tenuto in vita Shahrazàd per mille e una notte, la stessa che anima le chiacchiere dei vecchietti e che muove le mie dita sulla tastiera del computer.


Quando il sole comincia a calare, rientro a casa. Costeggiando il parco di Villa dei Cedri, accanto a una macchia di bambù, sento una conversazione di uccelli. Mi addentro nel boschetto e raggiungo in silenzio una radura. Intorno a me gli uccelli parlano fitto, mentre da lontano viene la voce di un bambino che chiama suo padre. I pettegolezzi dei pensionati, le grida dei bambini, questo misterioso cinguettio… vorrei capire tutti questi idiomi, vorrei poterli trascrivere e farne personaggi, racconti, catene di anomalie. Ma è destino che, qualche volta, ci siano storie da accogliere senza poterle comprendere del tutto.
Anche il feroce Shahriyàr deve fare i conti con questa consapevolezza. Di fronte alla solitudine, alla notte, alla nostra fragilità di esseri umani, siamo tutti bisognosi di storie. Non tanto perché ci insegnano qualcosa, quanto perché ci fanno compagnia: le narrazioni ci rammentano che siamo circondati da altri esseri umani che come noi gioiscono e soffrono, impastati di paura e di speranza. Shahrazàd mi ha insegnato a credere che la logica umana inganna e ci immerge in un mare di contraddizioni, fa dire Mahfuz al sultano. Ogni volta che giunge la notte, mi ricorda che sono un poveraccio.

PS: Il titolo di questo articolo è una parola in disuso, ma non estinta. Sarei contento se, nel mio piccolo, riuscissi a donarle ancora uno slancio vitale. Ecco la definizione che ne dà il dizionario Treccani.
Pispillòria (s. f.). 1. a. Lungo cinguettio di molti uccelli: invece delle allodole e dei cardellini che facciano pispilloria, si vedono svolazzare dei corvi (Faldella). b. Brusio, cicaleccio confuso di molte persone. 2. estens. Discorso lungo e noioso; anche, pettegolezzo, mormorazione.
Oggi, per me, è stata una giornata ricca di pispillorie.

PPS: Nagib Mahfuz (1911-2006, premio Nobel nel 1988) pubblicò ليالي ألف ليلة (Layālī alf laylah) nel 1982. La traduzione italiana è di Valentina Colombo, per l’editore Feltrinelli, e risale al 1997. Le parole di Pier Paolo Pasolini sono tratte da Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi 1989. Pasolini è citato anche da Robert Irwin nel suo The Arabian Nights. A companion (2004), uscito in italiano nel 2009 per Donzelli con il titolo La favolosa storia delle Mille e una notte (traduzione di Fulvia De Luca).

PPPS: Torno ogni mese alla piazzetta anonima tra via Raggi e via Borromini, a Bellinzona (nella Svizzera italiana). Ecco le altre puntate: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre.

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Oettinger

L’uomo con la camicia variopinta se ne sta da solo. Intorno a lui, nella piazzetta senza nome a sud di Bellinzona, si formano crocchi, si scambiano pareri sull’imminente temporale. L’uomo con la camicia variopinta ogni tanto si avvicina a un gruppo, ma senza interloquire con nessuno. Ha un paio di occhiali scuri e i capelli lisciati indietro con il gel. In mano stringe una lattina da mezzo litro di birra Oettinger. Quando arrivo alla piazzetta, all’incrocio tra via Raggi e via Borromini, noto che c’è fermento. Pare che pochi minuti prima un ubriaco abbia dato in escandescenze alla fermata dell’autobus. Il conducente l’ha tenuto a bada come poteva, poi l’ubriaco si è disteso sulla strada. Mentre i vecchietti sulla panchina commentano l’accaduto, passa un’ambulanza con le sirene spiegate. Dove lo porteranno?, domanda uno. Lo fanno dormire, assicura quello seduto al centro della panchina, lo fanno dormire finché starà bene. Un terzo è scettico: Con questo caldo? Ma quello seduto al centro assicura che dove lo porteranno ci sarà l’aria condizionata.
Nel frattempo l’uomo con la camicia variopinta si accosta alla fontana e si lava le mani, fissando nel vuoto. I pensionati continuano a chiacchierare. Uno di loro indossa una maglietta rossa con la scritta Giovane da cent’anni. Quello al centro della panchina, che sembra il più anziano, fa una battuta. Un vecchietto magro, a torso nudo, scoppia a ridere e picchia il piede per terra. Parole sante, ripete, parole sante.
Mi siedo sulla mia solita panchina e apro un libro che mi hanno regalato qualche tempo fa: Tom Chatfield, Come sopravvivere nell’era digitale (Guanda 2013). Non so se considerare il dono un’implicita esortazione a imparare come funzionano le nuove tecnologie (o almeno a sbarcare su WhatsApp o Instagram). La natura della tecnologia digitale – spiega l’autore nell’introduzione – è proteiforme quanto la nostra e può assumere molti ruoli nella nostra vita: un aiuto, un amico, un seduttore, un conforto, una prigione. In ultima analisi, però, tutti i suoi mutevoli schemi sono anche specchi in cui abbiamo l’opportunità di vedere noi stessi e gli altri come mai prima d’ora. Mi stupisce che manchi un paragone che mi pare evidente: la realtà digitale può essere anche una piazza, dove parlare con amici e sconosciuti o dove rimanere in disparte con in mano una Oettinger. Mi sembra un po’ esagerato il come mai prima d’ora; in fondo anche la mia piazzetta, nel suo piccolo, consente di vedere noi stessi e gli altri. Ma è chiaro che l’immensità del fenomeno può far girare la testa: Ormai ci sono più pagine sul web, annota Chatfield, che stelle nella nostra galassia. Capisco che l’autore lo definisca un gorgo vertiginoso, e a volte profondamente inquietante. Ma lo stesso si potrebbe dire di me o di qualunque altra persona che in questo pomeriggio di luglio si trova qui, intorno a questa fontana a forma di barile. Se la tecnologia è inquietante, lo è nella misura in cui gli esseri umani sono e resteranno sempre creature enigmatiche.
Sarà per il caldo, sarà per il nervosismo dovuto all’episodio dell’ubriaco, ma fra due vecchietti scoppia una lite. I toni si fanno roventi. Uno minaccia di andare a casa e di tornare con un coltello, l’altro gli risponde che in cantina conserva il fucile militare con dodici colpi. Il primo se ne va, furibondo. L’altro resta per qualche minuto, ma è di malumore. Alla fine salta sul suo motorino e si allontana, pronunciando a mezza voce un saluto collettivo al quale non risponde nessuno. Dall’altra parte ci sono tre persone che s’ignorano a vicenda: il primo sta in piedi, con la borsa a tracolla; il secondo siede con le gambe accavallate; il terzo, all’angolo della panchina, fin dal mio arrivo sta scrutando lo schermo del cellulare, senza mai alzare gli occhi. Fra di loro passa come uno spettro l’uomo con la camicia variopinta. Raggiunge una panchina vuota, si siede, allunga un braccio sullo schienale e si accende una sigaretta.
Oltre la metà degli abitanti della Terra sono contattabili dal resto del mondo, in maniera quasi permanente, attraverso qualche forma di connessione digitale “live”. Penso per contrasto alle forme di comunicazione più antiche e indecifrabili. Le scritte sulla panchina di legno (incise da chi, rivolte a chi, lette da chi?); il cicaleccio dei pensionati, memoria storica ma labile di un quartiere periferico; l’andirivieni delle formiche sulla corteccia degli alberi. Annoto sul taccuino le parole dei vecchietti e i segni sulla panchina. Poi provo a scattare una fotografia della corteccia ma, sebbene ci sia un gran viavai, nell’immagine mi sembra di non scorgere nemmeno una singola formica.
Una donna cammina lentamente, carica di borse della spesa. Nel cielo si addensano nuvoloni scuri e uno dei pensionati si rallegra di non essere venuto in bicicletta. Quello seduto al centro è scettico: Anche ieri doveva venire il temporale e poi non è venuto. Le nuvole creano una cappa, non si respira. Per l’uva, dice quello seduto a sinistra, questo caldo qui ci vorrebbe a settembre, mica adesso. Intanto, l’uomo con la camicia variopinta ha finito la sua birra e si è spostato accanto a me. A lungo osserva le automobili che passano lungo la via, mentre io torno a leggere. Eppure, è chiaro più che mai che nella nostra vita abbiamo bisogno anche di un po’ di tempo per pensare senza distrazioni, interruzioni o reazioni immediate, sia pure da parte delle persone di cui ci importa di più. Sono già le sei. È sempre più caldo. Guardo la fontana e poi in alto, verso le nuvole. Penso che in fin dei conti potrei andare anch’io a comprarmi una lattina di Oettinger, prima del temporale.

PS: Ogni mese torno nell’anonima piazzetta. Mi siedo, osservo, ascolto. Poi cerco di annotare tutto quello che succede. Ecco le puntate precedenti: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno.

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