Macadam

A volte basta poco per scivolare nella giungla. Ti alzi il mattino, bevi un caffè, esci per andare al lavoro. Ti trovi in coda insieme ad altre automobili, nel pulsare della pioggia, con l’acqua che riga i vetri e con i segnali che spiccano nell’aria grigia. Superi un cartellone che annuncia – o minaccia – una festa delle fragole, un altro che promette sconti per l’acquisto di tosaerba e mobili da giardino. Il verde delle montagne appare più cupo, percorso da veli di nuvole. Sul ciglio della strada, un vecchio in impermeabile aspetta alle strisce pedonali. Ti fermi per lasciarlo passare, lui ti guarda e rivela uno sguardo azzurro chiaro, fermo come un cielo d’estate. Subito ricomincia il flusso del traffico. Ma per un secondo, dentro quegli occhi, hai visto uno squarcio di fuga, una possibilità di evasione.
Quello sguardo incrociato per caso mi fa venire in mente un brano di Paolo Conte. Parla di un vecchio sparring partner, un uomo che s’intuisce segnato dalle ferite della vita e, per tanti aspetti, poco affidabile. All’inizio della canzone, una donna lo giudica un macaco senza storia, poiché gli manca la memoria / in fondo ai guanti bui. Nel ritmo avvolgente, nell’eleganza sinuosa delle frasi musicali si cela tutto il segreto di questo misterioso sparring partner: Ma il suo sguardo è una veranda… / tempo al tempo e lo vedrai / che si addentra nella giungla…

Sono occasioni che vanno colte all’istante. Collego l’iPod agli altoparlanti e ascolto Sparring partner, mentre intorno le strade, i palazzi, i fari delle altre macchine sfumano in un principio di giungla, e non ho visto mai / una calma più tigrata / più segreta di così. Alla fine si tratta di inoltrarsi nell’ignoto, anche se in maniera un po’ sgangherata: prendi il primo pullman, via, tutto il resto è già poesia.
Ciò che mi ha sempre affascinato, in questo e in altri brani di Conte, è la capacità d’impastare il quotidiano con l’immaginario esotico. Faccio un esempio. Il macadam (con l’accento sull’ultima “a”) è un tipo di pavimentazione stradale fatto di pietrisco compresso. Creato dall’ingegnere scozzese John McAdam nel 1820 e diffuso in tutta Europa fino al XX secolo, venne poi sostituito dal catrame, che è più resistente; ma ancora oggi viene impiegato per le strade di campagna poco trafficate o per i vialetti nei giardini pubblici. Senza dubbio, tuttavia, l’aspetto più interessante del macadam è proprio il nome, con quella risonanza che pare uscita da un romanzo di avventura. Infatti, nella canzone di Conte, il vecchio sparring partner stava lì nel suo sorriso / a guardar passare i tram… / Vecchia pista da elefanti / stesa sopra al macadàm.
Ci vuole poco, a volte, perché una strada senza sorprese si tramuti in una pista da elefanti. Naturalmente occorre qualcosa, una miccia che muova l’immaginazione. Un vecchio con gli occhi azzurri, intravisto alle strisce pedonali? Non solo: ieri mattina ho avuto anche la fortuna d’incrociare un pachiderma (per giunta di colore giallo). Ho impiegato qualche secondo per accorgermene: davanti a me c’era un grosso autocarro di una ditta di trasporti che ha per marchio proprio un elefante. Dietro l’oscillare dei tergicristalli, si è manifestato all’improvviso come un simbolo, un richiamo di vita selvaggia.
È un’illusione? Sarebbe meglio restare ben ancorati nel presente, nelle telefonate di lavoro, nelle cose da fare? Non so se questo indugio in ciò che non esiste sia del tutto positivo. Ma per me sarebbe difficile rinunciare a questo mondo alternativo, che appare in filigrana dietro il mondo reale. La sfida è trovare un’intersezione fra l’universo dei tosaerba e del traffico e quello degli elefanti e degli sparring partner.
In un certo senso, si tratta di cucire addosso alle circostanze un vestito che le renda diverse da ciò che sono. Un qualsiasi uomo anziano con gli occhi azzurri diventa un inquietante sparring partner, al tempo stesso macaco senza storia e meravigliosa veranda. Di sicuro questa traslazione fantastica deforma la consistenza reale delle cose; però almeno rileva che, dietro la normale trafila dell’esistenza, c’è un nocciolo che resta inspiegabile. Se il sentiero (anzi, la pista da elefanti) della nostra vita è tutto sommato prevedibile, uguale a tante altre vite, ogni tanto succede uno scarto, una frizione minuscola che suscita domande e desideri. Dice una fulminea poesia di Cesare Viviani: Perdersi in una volta dell’animo, / nel groviglio di storie / altrui, di tutti, di ognuno. Questa è la vera giungla.
Tornato a casa, esco sul balcone e mi trovo davanti ancora lo stesso grigio, la stessa pioggia. Mi porto fuori un pompelmo, lo appoggio sulla ringhiera. Di colpo, la sostanza luminosa del frutto irradia il suo splendore nel parcheggio. Il Citrus paradisi (questo il nome scientifico) apre uno spiraglio di esotismo. Non c’è nemmeno bisogno di mangiarlo; basta guardarlo, annusarlo, pronunciarne il nome: pompelmo, dall’olandese pompelmoes (pompel, “grosso”, e limoes, “limone”), a sua volta derivato dal tamil pampalimasu.
Pompelmo e macadam: che altro serve per smarrirsi nella giungla?

PS: Il brano Sparring partner venne pubblicato nell’album Paolo Conte (CGD 1984). La versione che ho ascoltato in automobile, e che ho proposto qui, è stata incisa dal vivo all’Arena di Verona nel 2005 e si trova nel disco Live Arena di Verona (Warner 2005). La lirica di Cesare Viviani è tratta da Osare dire (Einaudi 2016). Il dipinto qui sopra è di Henry Rousseau (1844-1910): s’intitola Tigre nella giungla in tempesta, risale al 1891 ed è esposto alla National Gallery di Londra. Il pompelmo proviene dalla Florida. Normalmente il frutto è giallo come un elefante, ma questa è una variante rosa, oggi molto diffusa e comparsa per la prima volta in seguito a una mutazione spontanea avvenuta in Texas nel 1929.

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Periferia

È un periodo con tanti impegni e poche idee. Avrei diverse cose da scrivere, ma è difficile trovare quello spazio intimo, anche mentale, quella stanza tutta per sé in cui accogliere personaggi e storie. Presentazioni, laboratori, incontri: la parte pubblica della vita di uno scrittore – ossia ciò che si fa anche per sbarcare il lunario – a volte rischia di sommergere il tempo vuoto, la lentezza di pensiero necessaria a scoprire un’idea, a levigarla, a trasformarla in qualcosa di concreto. In questi casi, uno dei rimedi che cerco di mettere in atto consiste nel camminare. Non si tratta di jogging (quello non aiuta) né di trasferimenti a piedi da un luogo all’altro, né di passeggiate o escursioni con una meta ben precisa.
img_8155L’idea è quella di camminare a caso. Ma ho notato che i miei vagabondaggi, in qualunque città mi trovi, tendono a portarmi verso la periferia. Mi piace in particolare quella zona in cui le città cominciano a sfilacciarsi, a mostrare un aspetto meno rigido, come se conservassero un ricordo di campagna. Ci sono appezzamenti di terreno vuoti, distributori di benzina, supermercati e complessi residenziali che si svuotano ogni mattina per riempirsi di nuovo in serata. Il momento più interessante, per i vagabondaggi periferici, è proprio quello del Grande Ritorno. Nella calma pomeridiana, per le strade girano soprattutto anziani, gruppi di adolescenti o genitori muniti di carrozzina. Poi, mentre si fa buio, arriva l’ora in cui le macchine appaiono sui vialetti, e con un sommesso ronzio le porte dei garage annunciano che il pomeriggio sta diventando sera.
img_8166Nella mia città ci sono un paio di punti in cui posso contemplare dall’alto un complesso residenziale (in periferia, ma non solo). Allora mi sento nello stesso tempo lontano dal mondo e presente in ogni gesto, in ogni sbattere di portiera, strillo di bambino, cigolio di cancello o fruscio di bicicletta. Il rientro dalla giornata di lavoro significa la pace? È il riposo dell’eroe che torna dal suo viaggio? Oppure è proprio a quest’ora che ogni eroe comincia la vera battaglia? In questi momenti, scrive Cesare Viviani, ci si affanna a smontare / e a rimontare il vero.
img_8105Che cosa significa questo lavoro, questo incessante interrogare il mondo? Non è soltanto il gesto della scrittura: è qualcosa che parte prima della scrittura, in un certo senso, e che finisce dopo. È quell’inquietudine che tiene desto l’eroe: infatti non basta sconfiggere il drago – o essere sconfitti dal drago, perché capita anche questo. C’è bisogno pure di interrogarlo, questo drago, per capire il senso del proprio combattere, del proprio viaggiare. Ogni volta che si arriva a un punto fermo, la ricerca non si placa; anzi, si fa ancora più intensa. Ciò che mi spinge a scrivere, non è il desiderio di svelare il mistero, ma quello di approfondirlo. Scrivendo ho l’impressione di costruire qualcosa di mio, qualcosa di vasto e ramificato; e subito, appena ho dato vita a questo insieme di voci, sento che si allontana, che non è più mio. Scrivere è acquisto e perdita, sempre, così come in un certo senso è tutta la nostra esistenza. Ho trovato questo sentimento in una lirica intitolata Scrivere romanzi, che la poetessa Daria Menicanti dedicò all’amica Lalla Romano (qui in formato pdf).
img_8135Ecco, scrivere è come osservare l’ora del Grande Ritorno. I personaggi seguono il loro destino. Percepisco una vicinanza fra me e loro, e tuttavia mi rendo conto che sono degli sconosciuti: parlano di cose che non so e stanno per entrare in sale da pranzo che non vedrò mai, fieri della loro cucina abitabile o della macchina nuova. img_8169Qualcuno sarà felice, incredibilmente felice in una sera d’inverno, qualcun altro invece nasconde la propria disperazione. C’è chi si lascia avvolgere dalla quotidianità come da una coperta, chi si addormenta sul divano, chi si affanna a smontare / e a rimontare il vero, chi si orienta nel trito di un tremante arcobaleno.
Non è sempre facile cercare le parole per ognuno di loro, liberare dentro di me lo spazio per accogliere queste parole; soprattutto, trovare la fiducia e la speranza perché valga la pena pronunciarle. Qualche volta, quando non ho parole, mi dico che il silenzio contribuisce alla scrittura. E immagino che ogni passo sui vialetti, ogni abbraccio sulla soglia, ogni sigaretta fumata sul balconcino faccia parte di una sola canzone, fatta di accordi in maggiore e in minore, con un suo ritmo, una sua armonia segreta che ogni tanto si rivela, ogni tanto si nasconde.
Proprio in uno spazio di periferia, Ben Wendel (sax) e Ambrose Akinmusire (tromba) hanno provato a dare voce a questa canzone, a queste domande.

PS: L’espressione una stanza tutta per sé è ripresa da Virginia Woolf (ne ho parlato qui). La lirica di Cesare Viviani è tratta da Osare dire (Einaudi 2016). Quella di Daria Menicanti proviene da Lalla Romano e Daria Menicanti: «mentre tu scrivi», a cura di Antonio Ria e Serena Savini, edito nel 2012 da Mimesis Centro Internazionale Insubrico come catalogo di una mostra dedicata alle due autrici.

PPS: Il video con Ben Wendel e Ambrose Akinmusire, registrato in una zona desolata di Los Angeles, vuole suscitare l’atmosfera del mese di dicembre. Secondo Ben Wendel, è un tempo per riflettere e per guardarsi indietro. È tratto dal progetto The Seasons (2015), dello stesso Wendel: sono dodici video per dodici mesi, ognuno con un approccio diverso; lo spunto è nato da Le stagioni, 12 pezzi per pianoforte composti da Čajkovskij nel 1876. Ben Wendel, che ha scritto la musica, duetta ogni mese con un artista che sente affine. Trovate qui la presentazione del progetto (in inglese) insieme a tutti i video in alta definizione. Ecco qui, invece, un commento sul mese di dicembre (sempre in inglese). Di Ben Wendel consiglio anche l’album What we bring, pubblicato qualche settimana fa da Motéma Music.

PPPS: Per chi non vedesse le immagini, ecco il testo completo della poesia di Viviani che ho citato sopra: Quando il cielo si tinge di nero, / a buio, / gli affaticati che ottengono / un giusto riposo a casa / non siamo noi, affannati a somontare / e a rimontare il vero.

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L’amore silenzioso dei pesci

La settimana scorsa, all’acquario di Genova, mi sono trovato di fronte a uno squalo. Me ne stavo lì con tutte le incertezze di un povero essere umano, mentre lui nuotava inesausto, come fa da quattrocento milioni di anni. Noi soffriamo, ci interroghiamo sul tempo, sulla politica, sull’amore. E lo squalo? Prima delle piante, prima dei vertebrati, era già la macchina perfetta che è ora. Per un attimo ho incrociato i suoi occhietti fissi. Poi ho pensato: chissà che noia.
Le nostre imperfezioni ci permettono di andare avanti, di cambiare nel tempo. Le nostre domande, la nostra capacità d’immaginare, di raccontare il mondo: è questo che ci contraddistingue e che ci rende unici fra tutte le specie. Ma il problema è che ad annoiarsi – come hanno rilevato tanti filosofi e poeti – non sono gli squali, ma siamo noi. Lo stupore di essere qui, di fare parte del mondo, a volte non riesce a contrastare quel sentimento strisciante, che sale da dentro e che corrompe ogni cosa.
Ci sono giorni in cui ho l’impressione che le rotaie della vita quotidiana mi spingano davanti agli stessi paesaggi, e mi pare di ripetere le stesse cose, le stesse parole, da sempre. Allora mi dico: quando ti troverai di fronte a ciò che non hai mai visto, magari saprai stupirti di nuovo. Ma non sono sicuro che sia tanto semplice.
img_7960Proprio all’acquario di Genova, in mezzo a stranezze marine di ogni tipo, a un certo punto mi sono chiesto: ma perché mai la vista di un delfino – o di una medusa, se preferite – dovrebbe suscitarmi un sentimento di meraviglia? Tutto è come deve essere, com’era e come sarà. Mi dicevo: lo spettacolo della natura, nella sua perfezione, è qualcosa di sorprendente; se non riesce a stupirti nemmeno questo, che cosa mai ti scuoterà? Forse l’arte della meraviglia dovrebbe venire allenata regolarmente. Ciò che la gente chiama “restare giovani”, nel limite del possibile, è la capacità di rinnovare lo stupore. E certe volte lo stupore nasce con la pazienza. Bisogna mettersi davanti ai delfini e aspettare. Scrive Cesare Pavese di non avere niente in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri. Poi aggiunge che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai.

Dopo un po’ i movimenti sinuosi dei pesci, le loro incomprensibili capriole hanno cominciato a ipnotizzarmi. Nello stesso tempo, come se mi trovassi al cinema, mi sono reso conto del flusso di umanità che passava davanti alla vasca. In una sua canzone, Lucio Dalla parla dell’amore silenzioso dei pesci / che ci aspettano nel mare. Ma il vero mistero non erano le creature subacquee; erano gli uomini, le donne, i bambini, quei profili umani che si prendevano per mano e agitavano gli iPhone davanti alla parete liscia delle vasche.
Invece di concentrare lo sguardo sui pesci, ho cominciato a osservare i miei simili. Che cosa fa sì che un essere umano adulto, sui cinquant’anni, si cimenti in una serie di contorsioni, protendendo un’asta di ferro, per il desiderio di scattare un selfie accanto a uno squalo? Molto interessanti erano le dinamiche di coppia (l’amore silenzioso degli umani). Una donna sulla quarantina con stivali alti, minigonna, top aderente, era intenta a fotografare i delfini; accanto, un po’ più indietro, il suo accompagnatore ignorava bellamente ogni forma di cetaceo e fotografava lei, la sua donna, da ogni punto di vista. Pochi metri più in là, una ragazza era affascinata dalla danza leggiadra e impalpabile delle meduse: sgranava gli occhi, tentava di filmarle con il cellulare. Il suo ragazzo, invece, non ne poteva più: andiamo, le diceva, adesso le hai viste, no? E lei, rapita: ma sono belle!

Ecco il fascino dell’acquario: giorno dopo giorno, il mondo di sotto e quello di sopra si sfiorano senza incontrarsi. Un bimbo prova ad accarezzare il dorso delle razze, una foca segue per un paio di secondi il gesto di una mano, ma poi ognuno torna alla sua esistenza. Viene in mente quell’altra canzone di Lucio Dalla, nella quale immagina il pensiero segreto delle creature marine: Frattanto i pesci / dai quali discendiamo tutti / assistettero curiosi / al dramma collettivo / di questo mondo.

Com’è profondo il mare… oltre a tutti i significati immaginabili, per me questo verso vuol dire che, perfino nei giorni più banali, c’è sempre qualcosa da scoprire. Il mare non è soltanto il mare, siamo tutti noi. Nei momenti peggiori, sembra un paesaggio eternamente uguale, fatto di acqua che si aggiunge ad altra acqua. Ma con un po’ di allenamento, si può arrivare a percepire il mondo come un luogo miracoloso. Già la grazia di avere fatto parte / di questa eternità incomprensibile, / di questo miracoloso spazio, / dovremmo essere grati.

PS: La poesia che cito alla fine è di Cesare Viviani, tratta da Credere all’invisibile (Einaudi 2009). La frase di Cesare Pavese proviene dall’Avvertenza ai Dialoghi con Leucò (nell’edizione Mondadori del 1972).

PPS: Il verso di Dalla sull’amore silenzioso dei pesci è tratto dalla canzone Henna, contenuta nell’album omonimo del 1993 (Pressing). Anche Com’è profondo il mare dà il titolo a un album, pubblicato nel 1977 (Ricordi).

PPPS: Grazie a Paolo per la fotografia dei pesci multicolori e a Martina per i video. La musica: Nightcall di Kavinsky & Lovefoxxx (video delfini) e la Cello Suite numero 1 in G minore di Bach (video meduse).

PPPPS: Devo precisare, infine, che lo squalo della prima immagine potrebbe non essere precisamente corrispondente allo squalo con cui ho avuto un rapido scambio di occhiate a Genova. Ma vai a sapere… non è facile distinguere uno squalo dall’altro.

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