Il blu e il noir

Sono seduto in una stanza fredda. Di fronte a me non c’è nessuna cosa blu. Un computer grigio, qualche libro rosso, uno marrone, uno giallo, una penna rossa, un tagliacarte argenteo. Carta bianca, camicia rossa e nera, lampada gialla. È una stanza spoglia, in una casa di montagna.  Davanti a me il muro (bianco) e una finestra con le imposte rosse dalle quali traspare il chiarore del sole. Perché dovrebbero esserci cose blu? Non lo so. Però mi dispiace che non ci siano. Certo, i miei occhi sono blu e chissà, forse improntano il mondo con la loro bluità. Nel dubbio, appoggio accanto alla scrivania la mia penna stilografica (azzurra, con inchiostro blu) e una copia di Une histoire de bleu, di Jean-Michel Maulpoix. Sfogliando il volume di poesie, m’imbatto in una frase che mi sembra adatta a inaugurare un nuovo anno: «Je contemple dans le language le bleu du ciel», contemplo nel linguaggio il blu del cielo.
Il linguaggio per me ha parecchie tinte oscure. Del resto nemmeno il cielo è veramente blu, secondo gli esperti. Ma che cosa importa? Il blu è il colore della lontananza e dell’intimità: fra questi due poli si muove il mio tentativo di dire qualcosa con le parole. Il blu è anche il colore dei fiumi, che sono i maestri di ogni narratore.

Il testo di Maulpoix contiene altre osservazioni memorabili. Traduco: «Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. […] Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani.» Se si rinuncia al linguaggio come mezzo di possesso, allora le parole saranno un modo per toccare «con le mani»; e come sappiamo fin da bambini, il desiderio di toccare le cose riflette quello di conoscerle davvero, con la nostra pelle.

Manca poco a Capodanno. Mi torna alla mente un racconto che scrissi in primavera e che, tuttavia, anticipava il 31 dicembre. S’intitola Il custode dell’abisso ed è contenuto nell’antologia Un lungo Capodanno in noir, edita da Guanda qualche settimana fa. Gli altri autori sono Gianni Biondillo, Gian Andrea Cerone, Luca Crovi, Giancarlo De Cataldo, Marco De Franchi, Diego De Silva, Marcello Fois, Leonardo Gori e Marco Vichi, che è il curatore della raccolta. La mia storia racconta di un uomo ossessionato dall’intelligenza artificiale. L’investigatore Elia Contini affronta un caso minimo, sospeso fra l’assurdo e il mistero che formano il cuore degli esseri umani. Il valore di questo libro, per me, consiste soprattutto nella possibilità di condividere la tecnica e il senso di un mestiere. Il cosiddetto mondo letterario purtroppo è spesso composto da monadi, da colossali ego che si urtano fra loro come continenti alla deriva. Una casa editrice che inviti degli autori ad affrontare un tema invita anche allo scambio, al confronto, al contatto diretto fra scrittori che vivono in luoghi diversi e che scrivono con colori diversi (ma un po’ di blu non manca mai, mescolato con il noir).
La motivazione profonda del mio scrivere discende dal mio essere lettore (e prima ancora ascoltatore e narratore di storie trasmesse oralmente). Perciò, fin dalla primavera, mi rallegravo non solo per l’opportunità di scrivere un racconto venato di malinconie capodannesche, ma soprattutto per la prospettiva di leggere i racconti degli altri, di entrare nel loro mondo. Il che è anche un modo per sentirmi meno solo.
Stamani, mentre caricavo i bagagli in automobile per salire in montagna, una delle mie figlie mi ha fatto notare come fosse nitido il mio riflesso sulla fiancata della macchina. «È quasi uno specchio!» A me sembrava molto confuso, ma ho provato a scattare una fotografia. In effetti l’immagine mi pare assai offuscata… in compenso non è priva di atmosfera. Mi colpisce la presenza dell’ambiguo e dell’ignoto. Sulla sinistra è comparso una sorta di paesaggio innevato (che non c’era) e addirittura quello che potrebbe essere un abete solitario. La casa alle mie spalle è diventata una dimora quasi spettrale. E il mio volto sfocato sembra invocare la grazia di un compimento, di un tratto che restituisca il blu allo sguardo.

Ecco, per me ogni esperienza di condivisione artistica è un passo verso il compimento. Non mi addentro nei dettagli delle singole esperienze (magari aggiungo un Post Scriptum), ma voglio ribadire che Un lungo Capodanno in noir è una di queste. Se la scrittura è la ricerca del proprio volto umano (a partire da un riflesso, da un richiamo), allora tale ricerca deve per forza implicare la presenza degli altri: prima del nostro, infatti, vediamo il volto degli altri, a partire dalla nascita e dal volto materno fino all’ultimo che riusciremo a contemplare, prima di chiudere gli occhi per sempre.
Sono partito con l’idea di scrivere qualcosa sul Capodanno e mi ritrovo a parlare della morte. 
Non era pianificato. A pensarci però mi sembra inevitabile.
Così funziona il mondo. È nella terra dura che dormono i semi, nell’aria tagliente che fioriscono i germogli. Per fortuna, il ghiaccio della pagina bianca prima o poi lascia sempre spazio all’azzurro di un fiume, anche solo di un rigagnolo. Auguro a tutte le lettrici e i lettori di questo blog un anno ricco di ruscelli, di blu, di volti da scoprire e, in generale, di meraviglia. Buon 2024!
Concludo con un estratto dal racconto Il custode dell’abisso

Ci sono persone che sono felici il 31 dicembre. Carlo ne conosceva qualcuna fin dall’adolescenza. Addirittura c’è chi a Capodanno trova l’amore, o qualcosa che ci assomiglia. Il mondo è vario: c’è chi adora il conto alla rovescia. Altri invece, presagendo la sconfitta, riescono a trovare una scusa: basta un raffreddore al momento giusto.
Carlo, invece, cominciava ad agitarsi verso la fine di novembre. Quale invito accettare? E se avesse sbagliato festa? E se fosse capitato per sbaglio a una cena fra coppiette?
Tutto questo a vent’anni è sopportabile, anzi, c’è una sorta di amaro compiacimento nel pensare a sé stesso come a un lupo solitario. A trent’anni invece sei prigioniero dei tuoi desideri, come sbarre di ferro, e non puoi evadere dalla gabbia sociale. Dopo i quaranta provi a metterla sul ridere, ma quando sei solo in cucina il mattino del 31 dicembre, dopo colazione, è difficile fingere di non sapere tutto. 
L’aperitivo, la musica sempre troppo forte, gli ehi-com’è-tutto-a-posto-non-ci-vediamo-da-un-po’, le chiacchiere sullo sport e sul lavoro, gli amici con figli e i relativi beati-voi-che-fate-festa-noi-invece-a-letto-presto. Poi la cena, l’amico esperto di vini, quello che si è comprato una barca, quello che corre in salita e sembra uno spaventapasseri, quello che produce in casa la birra e il pane. Le solite lenticchie, la solita euforia. Infine si va in piazza, dove c’è un palco con gente pagata per gridare, la musica di nuovo troppo forte, i fuochi d’artificio sul lago, oh, meraviglia, ma quanto costeranno? E la prospettiva di bere quel tanto che basta per riuscire a resistere fino al cinque quattro tre due uno, o forse un po’ di più, forse quel tanto che basta per dimenticare tutto il giorno dopo.

PS: Il testo di Jean-Michel Maulpoix è tratto da Une histoire de bleu, Gallimard, Paris 2005 (ed. orig. 1992). Si trova nelle sezione “Carnet d’un éphémère”. Ecco una traduzione dell’intera prosa.

Contemplo nel linguaggio il blu del cielo.

Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. Mi si addice la loro cecità: io sono un sognatore irriducibile. Le parole hanno un modo tutto loro per dissipare il mistero aumentandolo, e non mi rivelano niente di cui prima non abbiano deformato i tratti. Conosco i loro inganni e mi ci sono rassegnato. Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani. Anche solo per ravvivarne il dolore, concedo al linguaggio di corteggiare l’impossibile. La scrittura non è mai troppo ricca di desideri o di menzogne per chi faccia un uso tragico delle sue maschere. Sapendo la sua vanità, non vi rinuncia ma la coltiva come un veleno. Da quel momento niente l’ossessiona più di questa duplicità, dalla quale riconosce che sta diventando un uomo.

PPS: Chi legge questo blog si sarà accorto che gli aggiornamenti sono discontinui. Non è per trascuratezza, ma perché mi sembra opportuno misurare le parole. Il vantaggio di un blog, rispetto a qualunque social network, è che non chiede niente, né “like” o condivisioni, né pubblicità. Quindi pubblico qualcosa quando ne ho voglia, senza darmi nessuna scadenza.

PPPS: Una precisazione sulla creatività condivisa. Per me accade prima di tutto, e in maniera profonda, nella scrittura a quattro mani con Yari Bernasconi. Insieme abbiamo creato una “terza voce”: Yari Bernasconi & Andrea Fazioli è un’entità diversa da YB e AF intesi come autori singoli. Ma tale condivisione si è verificata anche quando ho collaborato con musicisti, pittori, registi teatrali e cinematografici. Vorrei citare almeno Marco Pagani e Fabio Pellegrinelli, con i quali ho sceneggiato La tentazione di esistere (Rough Cat 2023), un film diretto dallo stesso Pellegrinelli, che dopo avere vinto il festival di Benevento, è fra le opere selezionate per il prossimo Premio del cinema svizzero.

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Sorridi, se vuoi

CARTOLINE (DICEMBRE)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 45
Da Kingman, Arizona, Stati Uniti


Da quando la Atchison, Topeka and Santa Fe Railway ha costruito il deposito di Kingman sulla linea secondaria che si interrompe a Mullinville, non pochi personaggi taciturni e minacciosi hanno cominciato a transitare dalla cittadina. Non siamo e non saremo gli ultimi, insomma, anche se oggi le nostre preoccupazioni riguardano il carico speciale che avremmo dovuto ritirare per conto del Gordo. La polvere sotto gli stivali è sempre la stessa, ma l’ombra che gira e s’allunga non promette niente di buono. Il convoglio sarebbe dovuto passare da un pezzo. Ci scambiamo uno sguardo cupo: ci sono in ballo interessi che vanno al di là della nostra immaginazione, come ci ha lasciato intendere ieri sera il guerriero che si fa chiamare Mastamho. Gli uomini del Gordo dicono che c’è poco da fidarsi della popolazione mohave. A noi, per dirla tutta, pare che ci sia poco da fidarsi di chiunque decida di mettere radici in questo posto, che lo si chiami Kingman o Huwaalyapay Nyava. Per esempio, chi è questo che viene, proprio mentre ti stiamo scrivendo, e sembra armato e ci fa segno da lontano di non muoverci, sventolando una cartella di cuoio? Non giriamoci intorno: ci siamo messi nei guai. Una volta di più.

CARTOLINA NUMERO 46
Dal ventre di un grosso pesce

All’inizio sembrava una virgola, un’increspatura nell’acqua grigia. Quando ci siamo avvicinati, però, abbiamo riconosciuto la forma di un’isola nera e lisciata dal vento. Abbiamo calato la scialuppa e dopo due colpi di remi l’isola ha spalancato enormi fauci, piombando su di noi. Troppo tardi abbiamo capito che si trattava del Grande Pesce. Proprio lui: il Cetaceo, il Pescecane, il Kraken, il Leviathan. O la Balena. Le sue viscere sono buie, umide e soffocanti. Ci facciamo strada fra relitti di navi, scheletri, masserizie. Poi, in lontananza, intravediamo una luce. «Ohi! Che fate costì? Venite, venite…» Intorno a un tavolo stanno un vecchietto tutto bianco, un individuo magro e barbuto ma dall’aspetto solenne e un burattino di legno. È il vecchio a fare le presentazioni: «Mi chiamo Geppetto e son falegname, molto lieto! Questi è il mi’ figliuolo Pinocchio e questi è il signor Giona, che di mestiere fa il profeta». Il burattino tira fuori le carte: «Che bello, ora possiamo fare un poker in cinque!» Ci sediamo con cautela e, cercando d’ignorare il persistente odore di pesce, cominciamo la partita. Giona ci dà un’occhiata in tralice: «Attenti», mormora, «il burattino tenterà di fregarvi».

CARTOLINA NUMERO 47
Da Sidi Bou Said, Cartagine, Tunisia

Azraq. Oggi comprendiamo perché la parola “azzurro” proviene dall’arabo. Appena arrivati a Sidi Bou Said, un sobborgo a nord-est di Tunisi, abbiamo vagato tra i vicoli in salita, in mezzo a case bianche con porte celesti. Dalla cima si vedono il golfo di Tunisi e il luogo dove milleduecento anni fa Cartagine splendeva nella sua potenza. Ogni cosa è lāzuwardī: l’azzurro del mare rispecchia quello del cielo, quello delle porte, quello dei nostri sguardi e dei nostri respiri. Sidi Bou Said è un approdo turistico; anzi, nel 1915 fu il primo sito al mondo a venir considerato protetto. Ma oggi il vento porta immagini avventurose e il pensiero corre ad Annibale, che da qui trascinò il suo esercito fin sulle Alpi – azzurro il cielo spezzato dai monti, azzurre le genziane nei prati macchiati di neve… – prima di scendere faticosamente verso l’Italia. Per noi, in un attimo, è come sentirsi a casa. Dove abitiamo non si vede il mare, eppure anche noi apparteniamo al Mediterraneo. Anche noi soffriamo per le sue ferite. Azraq, azul, azur, azzurro, blu ċar, e kaltërt, galázio, mavi, modrá, plava, ṯelet… Sebbene risuoni in molte lingue, il colore è sempre lo stesso. E oggi appare vivo, brillante, come una bandiera di speranza.

CARTOLINA NUMERO 48
Dall’interno di un social network

Abbiamo confezionato una fotografia con commento, due “tag”, e ancora data e località. Poi abbiamo gettato il tutto nel fitto della foresta telematica, fra pollici alzati e faccine che ridono, faccine che piangono, faccine che abbracciano cuoricini, accompagnati da ripetuti inviti a condividere, a dire come ci sentiamo, a fare amicizia. Più sotto, come un pieghevole che si moltiplica senza fine, i commenti pedagogici: «forse non hai capito», «ti sbagli di grosso», «dove andremo a finire», «sei un cretino!», «fascista!!», «sei bravissimo!!», «guarda le statistiche!!!», «ti banno!!!!», «ti amo!!!!!». E citazioni, bestemmie, poesie, ricordi, grida d’aiuto. Intanto, là fuori, la vita oscilla tra un vagito meraviglioso, un appuntamento mancato, una madre che respinge il suo piccolo, una stella filante, la voce tenue di chi si è perso e non si ritroverà. Sorridi, se vuoi.

PS: Dicembre è il dodicesimo e ultimo mese del progetto #Cartoline2020. In un anno così imprevedibile, nel quale viaggiare è diventato più difficile, talvolta impossibile, è stato per noi significativo compiere insieme queste quarantotto ricognizioni avventurose. Speriamo siano piaciute anche a voi.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20, qui dalla 21 alla 24, qui dalla 25 alla 28, qui dalla 29 alla 32, qui dalla 33 alla 36,  qui dalla 37 alla 40 e qui dalla 41 alla 44.

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A Zurigo, sulla luna

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Di fianco a noi siede un ragazzo olivastro.
Barba scura, maglietta nera e scarpe
da ginnastica. Sull’orecchio un brillante
pacchiano. Fissa il suo telefono, poi aggiusta
nelle orecchie gli auricolari. Solo quando si gira
mi accorgo che i suoi occhi sono più azzurri
del vento, senza macchie, e si spalancano
densi come nubi. La piazza riflessa è diventata
minuscola, ora, noi tutti siamo punti dispersi
che non ritrovo, che si sommano ad altri
nel profondo marino di depositi e secoli.

Finché si alza, ride forte e riparte. Anche lui
torna presto insignificante.

[YB]

*

Quando non ci vedi più, immagini tutto. Le cose che sono, quelle che sono state. Le cose che potrebbero essere. Ho negli occhi il paesaggio della mia infanzia – il deserto, le vie della città vecchia, i minareti – e ho nelle orecchie le voci di questa piazza. Ho nelle narici i suoi odori. La campana del tram risuona anche troppo vicina. Il negozio di tabacchi si protende fino a me, insieme alla bottega del fioraio, alla pasticceria, all’edicola con i giornali freschi di stampa. Raggiungo in fretta il marciapiede, prima che arrivi il prossimo tram. Muovo il bastone davanti ai piedi, esplorando l’asfalto. Percepisco i corpi che si scansano per lasciarmi passare.
Mi siedo. Sono stanco. Il cervello lavora per ricostruire lo spazio, immaginando la distanza fra le persone, i palazzi delle banche, il volto di una madre che spinge una carrozzina. Ma nello stesso tempo, con poca fatica, il cervello immagina mia madre: i suoi denti bianchi quando ride, il velo ciclamino dei giorni di festa, le sue mani che impastano la farina. Mia madre, morta da anni, scivola in mezzo a un gruppo di ragazzi in gita scolastica. Il cielo senza confini non è più remoto del piccione che beccheggia a pochi centimetri dalle mie scarpe. Che cosa scegliere?
Potrei vedermi da vecchio al mio paese. Potrei vedermi all’altro capo del mondo. Potrei vedere una donna bellissima sopra i tacchi che si muove, si ferma, si muove. Potrei vedere le labbra che pronunciano parole in tedesco, in inglese, in spagnolo, in italiano, in altre lingue che non conosco. Una donna chiacchiera in arabo al telefono. Rihla sa’ida, buon viaggio. E io resto sulla panchina, con i pensieri che fuggono. Sento una ragazza che dice a un’altra, in tedesco: hai visto che occhi, quello lì? Guarda come sono chiari! Capisco che stanno parlando di un uomo seduto accanto a me. Non so se sia vecchio, se sia giovane, se sia straniero. Lo sfioro delicatamente sul braccio. Lui si volta, mi guarda.
Occhi blu, silenziosi come il mare sognato, come il cielo ricordato, come il tempo della giovinezza e come i pomeriggi che non finiscono mai. Mormoro due parole di scusa e avverto il suo imbarazzo nell’accorgersi che sono cieco. Lui torna a voltarsi dall’altra parte. L’invisibile azzurro del suo sguardo resta con me, ancora per un po’, nel vasto incrocio di Paradeplatz.

[AF]

*

Indietreggiare può fare bene, ogni tanto. Ritornare sulle proprie idee, mostrarsi timidi, lasciare spazio a qualcun altro. Così, all’angolo di Paradeplatz, invece di avanzare sicuri con i nostri taccuini in direzione della solita panchina, indietreggiamo un passo dopo l’altro, fino a ritrovarci all’interno di una corte ricca di marmi, bancomat e boutiques. Qualche metro ancora e compare un bar lussuoso agghindato con qualche pallone, bandierine, finte zolle di finta erba e un trionfante calcio balilla a ricordare il comune gaudio (mezzo mal?) dei campionati del mondo in Russia. Giunge l’eco di frasi lontane, pronunciate a mezza voce dentro un cellulare. Intorno domina la perenne staticità delle pietre levigate. L’unico movimento è quello di una fontana che, sul fondo, lascia intravvedere alcune frasi che scorrono. Sono desideri apparentemente inesaudibili, espressi in più lingue: respirer sous l’eau, essere invisibile, auf einem Teppich fliegen, die Zeit anhalten, be wherever I want…

“Siamo quello che siamo”, si sente dire ogni tanto: “prendere o lasciare”. Invece siamo molto più spesso quello che non possiamo diventare e quello non siamo riusciti a fare. Poco male, la poesia che abbiamo portato con noi sembra proprio uscita da quella fontana e dal flusso di parole: è un’ottava dell’Ariosto, tratta dall’Orlando furioso, dall’episodio di Astolfo sulla Luna (alla ricerca del senno di Orlando).

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

La Luna: ecco dove finiscono i vani disegni e i vani desidèri che rincorriamo per tutta la vita, e che non di rado ci plasmano e ci trasformano. Non si contano, sono moltissimi, e infatti la più parte ingombran di quel loco. Un loco speciale, lassù. Luminoso nel cielo di notte e appena accennato nel cielo di giorno, quando il colore dell’aria non è troppo intenso.
Indietreggiare fino alla Luna: presto scompare Zurigo, poi la Svizzera e l’Europa, i territori si dissolvono nel blu, l’orologio non scorre, la gravità è relativa, spazio e tempo sono una cosa sola, noi ci siamo e non ci siamo.
«Luna!», dice mia figlia di un anno e mezzo indicando il cielo con il dito fragile e deciso. «Sì, è la Luna», rispondo ogni volta. E insieme spalanchiamo gli occhi.

[YB]

*

Altre cose viste: due ragazze che si scattano un selfie davanti ai bancomat; un cieco che entra da Sprüngli; ventinove fra uomini e donne che camminano con un bastone (compreso il cieco); due scolaresche; un uomo che si soffia il naso nella maglietta; un mozzicone di sigaro cubano in un vaso; una donna con un velo ciclamino; una madre che sprona i figli a camminare gridando, in italiano, «È laggiù la fontanella!»; tredici carrozzine; innumerevoli cravatte; nuvole; bandiere; un elefante a rovescio; due monaci buddisti con l’ombrello; un carretto a pedali che trasporta champagne; due donne che indossano abiti dello stesso colore del cielo; un candelabro; cani; sigarette; ciclisti; un uomo altissimo.

[AF]

PS: Ludovico Ariosto pubblicò per la prima volta il suo poema nel 1516. Abbiamo citato l’ottava 75 del canto XXXIV (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Einaudi, 1966; 2015).PPS: Scoprire che il tempo non scorre, e anzi non esiste in quanto tale, può dare qualche vertigine. Ma come dice Carlo Rovelli, «L’assenza del tempo non significa […] che tutto sia gelato e immoto. Significa che l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic-tac […]. È una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici. Il mondo è più come Napoli che come Singapore» (in L’ordine del tempo, Adelphi, 2017).

  

 

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