L’arte di raccogliere ciottoli

Anni fa avevo letto in un libro la storia del ciottolo di Makapansgat. Mi ero procurato un’immagine della pietra e l’avevo salvata nel mio telefono. In seguito ho dimenticato sia il titolo del libro, sia la storia del ciottolo. Due giorni fa, cercando un’altra foto, ho ritrovato per caso l’immagine: un sasso che assomiglia a un volto umano, con dei solchi per gli occhi e la bocca.
Ho fatto qualche ricerca e ho letto – riletto, ma era come se fosse la prima volta – che la pietra risale a 2.95 milioni di anni fa ed è stata trovata in una grotta a Makapansgat, in Sudafrica Si tratta di un diaspro di colore rosso-brunastro. Accanto al ciottolo c’erano dei resti di Australopithecus africanus. Il materiale di cui è composta la pietra non proviene dai dintorni: qualcuno deve averla raccolta altrove e portata con sé.
Che cosa spinse quell’ominide a trascinarsi dietro il ciottolo per molti chilometri? Non è difficile capirlo: anche a me piace raccogliere sassi, tanto più se ne trovo uno che assomiglia a una faccia. Ma io vivo all’inizio del Ventunesimo secolo e sono abituato ad attribuire un valore simbolico agli oggetti. Per arrivare a me il percorso è stato lungo: gli antenati degli esseri umani impararono lentamente che le cose potevano assomigliare ad altre cose. È quello che succede ai bambini, quando riconoscono nei nostri disegni stilizzati un uomo, una donna, una casa, un gatto.

Il ciottolo di Makapansgat è un oggetto artistico, forse il primo in assoluto. Non è stato creato da un essere umano, poiché la sua origine è naturale. Ma una persona l’ha visto, l’ha afferrato. Immagino la sua meraviglia. Non ha nemmeno potuto indicarlo a qualcuno ed esclamare “ehi, guarda, sembra la tua faccia!”, perché ancora non si era sviluppato il linguaggio. Sono convinto però che l’avrà mostrato con fierezza ai membri del proprio clan. E gli altri l’avranno ammirato a bocca aperta. Forse qualcuno avrà scosso il capo, pensando che raccattare sassi fosse una perdita di tempo. Ancora oggi c’è gente che la pensa così.
Quando ci penso, quel gesto mi commuove. Il ciottolo venne raccolto quando gli ominidi ancora non sapevano costruire utensili in pietra, più di un milione di anni prima che imparassero a controllare il fuoco. Le manifestazioni artistiche dirette, come le incisioni rupestri, sarebbero arrivate centinaia di migliaia di anni più tardi. Gli scienziati discutono sulla reale portata di quell’azione, ma non voglio addentrarmi nella diatriba. Per me oggi basta questo: riconoscere il proprio volto nelle cose del mondo, senza costruire o modificare niente, è l’inizio di ogni storia. Tutta l’arte, tutta la letteratura nacque nel momento in cui un ominide tirò su una pietra e se la mise in tasca (in una proto-tasca), proprio dove noi teniamo il telefono e il portafogli. Mi piace immaginare che fosse un luminoso mattino di primavera.
Come sempre, in occasione del mio compleanno, mi trovo a riflettere su di me, sul mio mestiere. Credo che il ciottolo di Makapansgat sia una sorta di manifesto anche per un narratore. Le storie non si traggono dal nulla, ma esistono già: bisogna solo raccoglierle da terra. La poesia non è un’invenzione, ma un riconoscimento. Questo mi aiuta nei momenti in cui mi chiedo che cosa fare, che direzione dare alla mia scrittura, come lavorare a un testo. Nella pratica quotidiana, anno dopo anno, mi rendo conto che non si tratta di affermare la mia personalità, bensì di lasciare spazio al mondo, perché esso si rifletta nelle mie parole.
Chissà, forse la prima volta in cui mi capitò di leggere la storia del ciottolo avevo sviluppato dei pensieri simili. In ogni caso, poi ho dimenticato tutto finché lunedì scorso, passeggiando fra le fotografie conservate nel mio telefono, ho raccolto il ciottolo un’altra volta. Anche questo mi conforta: dimenticare le cose non è per forza un male, anzi, può essere un’opportunità per continuare a riscoprirle.
Per fortuna, là fuori l’universo è pieno di ciottoli.

PS: Negli ultimi mesi scrivo poco in questo blog. Non so nemmeno il perché. In generale, faccio fatica a usare anche i social network e le forme di comunicazione immediata. Credo tuttavia che sia giusto fare uno sforzo per proseguire anche questo tipo di scrittura, insieme a quella più lenta e più meditata delle mie pubblicazioni “ufficiali”. Quindi, tornerò a farmi vivo, presto o tardi…
Intanto, per chi segue ogni tanto anche il blog, voglio festeggiare il compleanno con un breve inedito, come vuole la tradizione. S’intitola Pensieri dell’ingorgo.

Leggi Pensieri dell’ingorgo

(Il testo è già stato pubblicato in un volume a tiratura limitata, un omaggio a più voci al poeta Alberto Nessi: AAVV, Rampe di lancio doganieri nuvole, Omaggio ad Alberto Nessi, a cura della Casa della letteratura per la Svizzera italiana, Bellinzona, Edizioni sottoscala, 2020.)

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Un circo, in lontananza

È quasi buio. Sto camminando attraverso un grande prato, ancora libero dalle costruzioni. A un certo punto, in lontananza, avvisto le luci di un circo. Alla sinistra del tendone, avvolto dai colori, appaiono due grandi gru, impiegate in un cantiere edile. Dietro, si staglia il profilo nitido delle montagne. Più contemplo questa scena, più fatico a riprendere il cammino, nonostante il freddo. Ho l’impressione di avere già vissuto tutto questo: io immobile, in un prato che diventa buio; oltre il buio, la promessa dell’ignoto che si fa scoperta, avventura, meraviglia. Mentre ancora non ci sono arrivato, tuttavia, già sento la tristezza per la durata effimera delle luci e dello stupore. Il circo ripartirà, le due gru costruiranno un palazzo che resterà invece al suo posto, solido, massiccio. E io non sarò mai più sullo stesso prato, con lo stesso freddo, con gli stessi colori che mi aspettano all’orizzonte.
Alla fine mi sono avvicinato. Dentro il tendone era in corso uno spettacolo, perciò a guidarmi è stato il suono dell’orchestra. Ho girato intorno al circo, ho osservato gli autocarri, i recinti per gli animali, gli artisti in attesa di entrare in scena. Una cavallerizza fumava una sigaretta, appoggiandosi a una staccionata. Un clown si stropicciava le mani per tenerle calde. Fin da quando sono bambino ogni anno assisto allo spettacolo del circo Knie, e da sempre mi stupisce l’intreccio fra l’eccezionale e il quotidiano. Nella città grigia di novembre appare questo scintillìo, questa girandola di pagliacci, acrobati, cavalli. Un mondo che sorge di notte, come un incantesimo, e che dopo tre giorni riparte senza lasciare tracce. Dentro l’arena si accendono le fanfare, le risate, gli applausi; intanto fuori piove e un acrobata, avvolto in un manto sfavillante di lustrini, cammina nel fango verso il suo carrozzone.
La famiglia Knie è arrivata all’ottava generazione. Da cento anni porta in giro per tutta la Svizzera la sua carovana di animali e artisti, destreggiandosi per presentare i numeri in tre lingue e per adattarsi alle stagioni. Per me il circo ha un sapore tardo autunnale, ma in altre città dev’essere simile a una fiera estiva. In particolare, ho una predilezione per la figura del pagliaccio colto nella luce di novembre. Mi affascina quel senso di lontananza che sempre si sprigiona dai clown: sono lontani da noi, dalle nostre esperienze, sono esagerati, sono caratteri estremi… eppure, mentre li guardiamo, ci sorpendiamo all’improvviso come in uno specchio. Questa è la forza del circo: è una narrazione primordiale – forse il primo mezzo con cui l’essere umano ha provato a raccontare storie, insieme ai graffiti e alle fiabe – e allo stesso tempo è eternamente provvisorio. Arriva, crea una piccola fantasmagorica città e poi riparte.
Anche gli artisti del circo affondano le radici in una lontananza che, durante lo spettacolo, si tramuta in presente. Quest’anno ho apprezzato la figura di Yann Rossi nei panni del clown bianco. Già suo padre era un pagliaccio rinomato, così come i suoi antenati: nel 1732 i Rossi già si esibivano in Francia, alla corte di Luigi XIV. Anche Davis Vassallo e Francesco Fratellini sono stati molto bravi nel riproporre in maniera moderna e sofisticata alcuni numeri storici, fra cui quello dell’innaffiatore che finisce innaffiato. Fra l’altro, una variante elementare di questa gag ispirò un cortometraggio dei fratelli Lumière, L’arroseur arrosé, che venne proiettato nella prima rappresentazione pubblica di cinematografo, avvenuta il 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café, nel boulevard des Capucins a Parigi.
Anche Francesco Fratellini proviene da una dinastia celebre, cominciata con Giuliano Fratellini nel 1745: Francesco è un esponente dell’ottava generazione. Gli appassionati di circo conoscono soprattutto tre membri della quinta generazione: Paul (1877-1940), François (1879-1951) e Albert (1885-1961), fra i maggiori pagliacci in assoluto di tutti i tempi. Fra il 1909 e il 1940 il Trio Fratellini fece ridere tutta l’Europa, resistendo anche durante i tempi più difficili, come la Prima guerra mondiale. François era il clown bianco, Albert l’augusto, mentre Paul mediava fra i due estremi. I tre ispirarono scrittori (Jean Cocteau, Raymond Radiguet), pittori (Pablo Picasso e molti altri) o fotografi (Robert Doisneau). Annie Fratellini, nipote di Albert, fu la prima donna a vestire i panni dell’augusto; nel 1974 fondò con suo marito Pierre Étaix l’École Nationale du Cirque, poi Académie Fratellini. La coppia è presente nel film I clowns di Federico Fellini (dove appare anche Gustavo, un altro membro della famiglia). Nel 1955, a settant’anni, Albert raccontò in un libro la sua vita e quella dei suoi fratelli, augurandosi che il nome Fratellini restasse «il simbolo della gioia che s’infrange, come una tempesta, sui gradini del circo». Da quanto ho potuto vedere, la tempesta infuria ancora… e dalle onde, dalla schiuma nasce la poesia. Come ebbe a dire lo scrittore Henry Miller, «il clown ci insegna a ridere di noi stessi, ed è un ridere che nasce dalle lacrime». È un gesto potente, catartico. Perciò, sempre secondo Miller, «il clown è un poeta in azione. È lui stesso la storia che interpreta.»PS: Per chi abita non lontano dalla Svizzera italiana, suggerisco di visitare la mostra Remo Rossi e il circo. L’arte della meraviglia. Omaggio a Rolf Knie, aperta fino al 28 marzo 2020 nella sede della Fondazione Rossi a Locarno. Alcune opere sono visibili anche nella Casa Ossola a Orselina e nel Ristorante Teatro Dimitri a Verscio.
L’esposizione presenta numerosi schizzi e disegni dell’artista, dai quali scaturirono le sue opere scultoree (di cui alcune fra le più celebri sono state raccolte per l’occasione). Tra i suoi soggetti sono infatti assai numerosi i clown, gli acrobati e gli animali da circo (per esempio la scultura della foca nella piazza Governo di Bellinzona). Inoltre si possono ammirare anche alcuni dipinti e una scultura di Rolf Knie, nato nel 1949, esponente della sesta generazione, il quale fu clown, cavallerizzo e acrobata prima di diventare pittore e scultore.

PPS: La frase di Albert Fratellini proviene dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi. Le parole di Henry Miller sono tratte dalla postfazione al suo racconto The smile at the foot of the ladder (1958), tradotto in italiano da Valerio Riva (Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala, Feltrinelli 1963; 1980).

PPPS: Per conoscere altri dettagli sul circo Knie, e per mille altri approfondimenti legati al mondo del circo, consiglio di visitare il sito Solo Circo X Sempre, aggiornato e gestito con cura da Andrea Eglin.

PPPPS: Le prime tre immagini dell’articolo ritraggono il circo Knie. Poi c’è un ritratto di Albert Fratellini e una foto dello storico Trio Fratellini. Infine, Remo Rossi fotografato accanto alla scultura Acrobati su impalcatura (1960 circa). Anche la scultura qui sotto, intitolata Gli acrobati, è di Remo Rossi.

 

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Ross Ice Shelf

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Luglio
Hanafuda: Lespedeza / Cinghiale
Luogo: Ross Ice Shelf, a circa 400 km dalla McMurdo Station, Antartide
Coordinate: 80°38’49.3″S 171°01’35.5″E
(Latitudine -80.647028; longitudine 171.026528)
Fra il 1785 e il 1796 il botanico ed esploratore francese André Michaux viaggiò in diverse regioni del Nordamerica. Nel 1803 pubblicò il volume Flora boreali-americana. Fra le altre cose, Michaux descrive una nuova specie di legume che chiama “lespedeza”. In una nota a piè di pagina spiega di avere dato al vegetale quel nome in onore di D. Lespedez, gubernator Floridæ, erga me peregrinatorem officiosissimus (“D. Lespedez, governatore della Florida, che ha dimostrato grande cortesia verso di me durante i miei viaggi”).  La pianta è ancora oggi conosciuta con quel nome… peccato però che il governatore si chiamasse in realtà Vicente Manuel de Céspedes y Velasco. Com’è potuto accadere quel passaggio da “Céspedez” a “Lespedez”, con quell’errore destinato a restare nella storia della botanica? Comunque sia, c’è qualcosa di festoso in quel nome: lespedeza. Non è solo un legume, ma una burla, una parola che non doveva nascere e che invece è nata. Mi ripeto questa parola – lespedeza, lespedeza – mentre guido su una strada montuosa del Centro Italia, diretto verso un piccolo circo girovago.
Il luogo dov’è accampato il circo è circondato da querce e castagni. Verso sera le luci si accendono e gli spettatori si avvicinano all’ingresso (saranno al massimo una ventina). Mentre mi metto in fila, immagino che altri spettatori, silenziosi, sguscino fuori dal bosco: volpi, cinghiali, tassi… per una volta le bestie guarderanno gli uomini. Forse sorrideranno, si chiederanno quando arrivano i pagliacci ed esclameranno: ehi, ma quell’acrobata è matto! Non voglio vedere, borbotterà il cinghiale, io chiudo gli occhi. Sono quasi certo che la volpe riuscirà a procurarsi un cartoccio di popcorn.
Intanto comincia lo spettacolo, incantevole come la parola “lespedeza”. Dopo il numero dei clown appare un acrobata con un abito di lamé argentato. Al centro della pista, solo nel suo scintillìo, sembra uno spicchio di luna. Mi fa pensare all’acrobata creato dallo scultore Remo Rossi: un’opera che racchiude in sé l’incanto della leggerezza e la maestà della forza. Misteriosamente, nonostante gli angoli squadrati, l’equilibrista di bronzo sembra morbido e sinuoso, proprio come una mezzaluna. Davanti ai miei occhi, nel piccolo circo, l’acrobata lunare si arrampica lungo una fune, cammina sopra una corda, balza sopra un lunghissimo palo, volteggia nel silenzio attonito del pubblico. Lui è concentrato, tranquillo… siamo noi, in basso, ad avere le vertigini.
Chiudo gli occhi e ripenso al mio viaggio in Antartide. Anche in quella circostanza, ero pieno di vertigine. Nel buio, circondato da milioni di chilometri di ghiaccio, fermo in un luogo imprecisato della Ross Ice Shelf, ho sentito che il mondo era immenso mentre io solo un pugno di ossa, muscoli e sangue, un respiro fragile nell’aria gelida. La Barriera o il Tavolato di Shelf è un’enorme distesa dove non si vede niente nemmeno d’estate, nel candore abbacinante. Ma in quel momento, d’inverno, rincattucciato nel mio riparo provvisorio, sperando che il vento non strappasse via, mi sono chiesto che cosa mi avesse portato laggiù.
Che cosa muove gli esseri umani a viaggiare, sempre, in ogni epoca, con il corpo o con l’immaginazione? Fin dall’inizio dei tempi ogni volta che qualcuno tracciava un confine, un altro lo superava. Nel corso dei secoli ogni angolo della Terra è stato delimitato, recintato, trasformato in proprietà pubblica o privata. Qui finisce il mio paese, là comincia il tuo. Ma a ben vedere, nessun luogo ci appartiene. Per capirlo, basta farsi un giretto da soli in Antartide. Alcune nazioni vorrebbero tracciare confini anche qui, ovviamente, ma intanto il vento soffia a cento chilometri all’ora, la visibilità è inferiore ai dieci metri e la temperatura percepita scende sotto i -75°C. Quando tutto ciò che ti separa dal nulla è una piccola tenda, capisci quanto sia folle l’ambizione umana.
Ero un punto nel vuoto. Un’increspatura nel buio. Non ero mai stato tanto lontano da tutto. Il bar più vicino si trovava a più di quattrocento chilometri. E mi era ancora andata bene, in un continente con una superficie di quattordici milioni di chilometri (quasi tutti ricoperti di ghiaccio perenne). Se avessi camminato più o meno diritto in direzione dell’Oceano Antartico avrei potuto raggiungere il Gallagher’s Pub alla McMurdo Station (che in inverno è abitata da più o meno trecento persone). Il problema, naturalmente, era che da quelle parti il concetto di “direzione” è assai astratto.
Naturalmente, visto che ne sto scrivendo, alla fine in qualche modo ho raggiunto Il Gallagher’s Pub, chiamato così in ricordo di Charles “Chuck” Gallagher, il padre del proprietario. È un luogo caldo e accogliente. Appena arrivato, dopo avere riacquistato l’uso dei cinque sensi – li avevo persi praticamente tutti –, ho brindato al calore e all’umanità con una tequila messicana. Dopo un po’ mi sono liberato del sentimento di opprimente solitudine e anche del gelo che mi era entrato nelle ossa. Ma la vertigine invece no, quella non mi ha lasciato. Quando ci penso, oggi, qui, mi sento ancora un acrobata sospeso sulla fune, mentre intorno i pianeti e le stelle ruotano nell’oscurità.

HAIKU

Un vecchio clown
nel buio suona il violino.
Notte di luglio.

 

PS: Questo è il settimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo,  aprilemaggio e giugno.

PPS: In base a un trattato firmato da 46 paesi e risalente al 1959, l’Antartide non appartiene a nessuna nazione. Sono vietate sia le attività di sfruttamento economico, sia quelle militari.

PPPS: L’immagine della lespedeza è presa da internet, così come quella dell’acrobata di Remo Rossi (quest’ultima, scattata da Chiara Zocchetti, proviene dal sito del “Corriere del Ticino”). La scultura si trova nel “Giardino del clown” a Verscio, nella Svizzera italiana.

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Yabluniv

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Giugno
Hanafuda: Peonia / Farfalla
Luogo: Yabluniv, distretto di Kaniv, Oblast’ di Čerkasy, Ucraina
Coordinate: 49°40’27.8″N; 31°26’21.0″E
(Latitudine 49.67439; longitudine 31.43916)
Un ristorante in campagna, una sera di giugno. I tavoli sono disposti sul prato, con le tovaglie candide, le caraffe di vino rosso. I campi e le colline fuggono all’orizzonte, mentre il sole diventa rosso fuoco prima di scomparire. Sotto la pergola, vicino all’ingresso del ristorante, c’è una tavolata allegra: due o tre famiglie che si godono il fresco, lontano dalla città rovente.
Un bambino sui quattro anni si stacca dal gruppo. È curioso, attento a quanto avviene ai tavoli vicini. Si avventura sul prato e, dopo un paio di minuti, decide di suonare la tromba. Accosta il pugno alla bocca, mimando il suono. Dapprima nessuno gli bada; dopo un po’ alcuni cominciano a osservarlo divertiti, altri infastiditi. I genitori ancora non si sono accorti dell’assolo di tromba. Il figlio è sempre più rapito dalla sua stessa musica, si muove a tempo, si divincola, come in un raptus. Il ritmo si fa più veloce, gli acuti più febbrili. Il bambino si ferma un attimo. «Sto suonando la tromba», dice. Poi riprende l’assolo, come in trance, mescolando varie melodie e terminando con una nota prolungata. Esausto, si lascia cadere supino sul prato, con gli occhi rivolti al cielo. Dal tavolo sua madre gli chiede: «Va tutto bene?» «Sì» risponde il bambino, ansimando. Poi, come tra sé, aggiunge: «Ehi, si vedono le stelle!»
Stavano sbiadendo le ultime stelle anche quando mi sono svegliato dopo una notte all’addiaccio, nel cuore dell’Ucraina. Una nebbiolina che saliva dal basso lasciava presagire che sarebbe stata una giornata calda. Stavo seguendo il crinale di una montagna, lungo l’estrema propaggine di una zona selvaggia ricca di foreste, di orsi e di fiumi tortuosi. Nel pomeriggio mi sarei abbassato fino a raggiungere la città di Yabluniv, della quale sapevo soltanto che aveva due o tremila abitanti e che era conosciuta per il suo museo ebraico. Avevo anche sentito dire che, poco lontano dalla zona urbana, c’era un colossale impianto di pollicultura. Non so perché, ma la cosa mi suscitava una certa inquietudine.
Quel mattino, comunque, ero solo. Forse per questa ragione ero attento ai dettagli: le volute della nebbia, il fruscio dell’erba sotto ai miei piedi, il volo di una farfalla. Quest’ultimo evento, in particolare, ha catturato la mia attenzione. In un certo senso, mi ha fatto venire in mente il bambino che fingeva di suonare la tromba. Avevo la sensazione di trovarmi davanti a un impeto creativo, a un gesto di arte involontaria. Involontaria? Quanto è cosciente una farfalla della sua grazia? Chi crea veramente quella bellezza? Ogni essere umano prova a dare una risposta: Dio, la natura, il caso. Ma di certo la bellezza è innegabile, per tutti. Il battito delle ali, l’irregolarità del volo, l’incanto dei colori, gli abbinamenti cromatici che si rinnovano di fiore in fiore. Che cosa c’è di più naturale di una farfalla ai margini di un sentiero? E nello stesso tempo, che cosa c’è di più meraviglioso?

HAIKU

Viene la sera –
le peonie si addormentano
stanche di sole.

PS: Questo è il sesto “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo,  aprile e maggio.

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Lezioni di volo

Sulla mia scrivania c’è una pulcinella di mare (fratercula arctica). È piccola, con il manto nero, il petto bianco. Le zampe e il grande becco sono arancioni. Va precisato che mai la pulcinella di mare spiccherà il volo, dal momento che non si tratta di un uccello bensì di un’ocarina. In altre parole, è uno strumento musicale travestito da pulcinella. Ci siamo incontrati qualche mese fa a Lima, in Perù. Lei stava in una cesta con altre ocarine a forma di uccello. Mi guardava. Io non avevo intenzione di comperare ocarine, però lei mi guardava. E ora eccola qui, accanto al mio computer. Io scrivo, lei continua a fissarmi. Entrambi, lo sappiamo bene, non voleremo mai. Ma entrambi desideriamo volare.
La fratercula arctica vive nell’Atlantico settentrionale e sfreccia nell’aria a novanta chilometri all’ora, battendo le ali quattrocento volte al minuto. La mia fratercula da scrivania, invece, proviene dal Perù, sta ferma e ascolta il ticchettio dei tasti. Credo che, pur essendo di terracotta, conservi dentro di sé un barlume di nostalgia per gli immensi cieli nel nord, le scogliere, il fragore delle onde. E io? In quanto essere umano, ovviamente, non posso volare (intendo volare davvero, senza deltaplani, elicotteri, astronavi o paracadute). Ma proprio in quanto homo sapiens, covo una segreta aspirazione a librarmi nell’aria. Fra le più antiche narrazioni giunte fino a noi ci sono testi cuneiformi assiri del II millennio a.C. in cui si menziona il sogno di volare. Ma secondo me già l’australopithecus afarensis, dopo aver imparato a camminare in posizione eretta, deve avere accarezzato il sogno di un altro passo evolutivo: sollevarsi, muoversi nel vuoto, cambiare orizzonte alla velocità con cui mutano i pensieri.
Torniamo alla tastiera del mio computer. Per due esseri irrimediabilmente terrestri come me e la mia povera fratercula mensae scriptoriae, scrivere parole che portino lontano può, almeno in parte, sostituire l’azione di volare.
Prima ho scritto “Perù”. Adesso aggiungo: domenica mattina, primavera, pisco sour, palme, mirador. Chiudo gli occhi un istante, li riapro in Plaza de Armas. Appena finiscono di battere le campane della Catedral, una banda attacca a suonare davanti al Palazzo presidenziale.
Intorno, possenti edifici di colore giallo, con balconi di legno intarsiato, palmizi, una certa atmosfera coloniale, come se il tempo non fosse passato. Ma è un’illusione: niente è immobile in questa città. La periferia si espande a vista d’occhio, con ondate di migrazione dalle campagne che hanno reso Lima la seconda città più popolosa del Sudamerica (dopo San Paolo). Più di nove milioni di abitanti, più di nove milioni di cuori che battono, cervelli che sognano e soffrono e sperano, anche loro, di volare.
Nel mese di ottobre sono stato in Sudamerica per un giro di conferenze: prima a Lima, in Perù, poi a Quito (Ecuador) e infine a Bogotà (Colombia). Il tutto in una decina di giorni. Poco tempo per vedere con calma, per ascoltare, per tentare di capire una città. Del resto, per capirla davvero non basta una vita. Ma anche in poche ore possono accadere incontri, sorprese, piccole folgorazioni. Se rileggo il mio taccuino, trovo annotazioni accomunate dalla tensione verso l’alto, come se il pensiero sotterraneo del volo avesse permeato quei giorni senza che me ne rendessi conto.
Condivido altre parole con voi e la pulcinella: piramide, argilla, Huaca Pucllana, vasosqualo. E subito siamo nel quartiere di Miraflores, a sud della città. Proprio in mezzo al tessuto urbano, sorgono le rovine precolombiane di una piramide che risale al 500 d.C., lasciate da una civiltà che abitava la valle del fiume Ribac.
Tutto, in questo sito archeologico, trasmette volontà di resistenza e trasformazione. La piramide sale, perché i riti più profondi dovevano avvenire vicino al cielo. I mattoni di adobe sono disposti in maniera verticale, come tanti libri nello scaffale di una libreria, in maniera da resistere alle scosse sismiche. Nel piccolo museo noto una vasija ceremonial con rostro escultórico de tiburones. Si tratta di un vaso con la faccia da pescecane, che immagino indeciso fra l’ancestrale esigenza di sbranare e la quotidiana funzione di contenere.
Nello stesso quartiere, a poca distanza, la città finisce ai bordi dell’Oceano Pacifico. Anche in questo caso, per cogliere l’ampiezza dell’Oceano, bisogna salire fino al punto di osservazione più alto. In mezzo ai belvedere e ai punti di ristoro, scopro una panchina divelta, mezzo sepolta nell’erba. È protetta da un terrapieno, perciò, appoggiato contro lo schienale, sento svanire le voci dei passanti con il loro turbinio di selfie, sento perdersi anche le strade, le case, le automobili. Per qualche secondo, mi pare di essere solo davanti al Pacifico. Basterebbe così poco. Un fremito del corpo, un battito d’ali. Invece solo il pensiero vola, immaginando velieri, burrasche, isole sconosciute.
Mentre andavo all’Istituto italiano di cultura, dove avrei tenuto una conferenza, mi sono imbattuto in una libreria. Un piccolo volume di poesie ha attirato la mia attenzione: Eduardo Chirinos, Breve historia de la música. Ogni lirica è abbinata a un brano musicale, dai compositori del XIV secolo a Cage, passando per Mozart, Gershwin e molti altri. Fra le composizioni che hanno ispirato l’autore c’è un canto anonimo siciliano del 1492: Ayo visto lo mappamundi. Percorrendo la carta del mondo a volo d’uccello, l’anonimo autore esprime la convinzione che la Sicilia sia la regione più bella di tutte, facendo poi un gioco di parole fra due significati di Cicilia: il luogo geografico e il nome della sua amata. Chirinos fa suo lo sguardo dell’anonimo siciliano: con il dito percorre dall’alto le catene montuose, i mari, i deserti. E si chiede: ¿Veré tu nombre en el mapa? Vedrò il tuo nome sulla mappa?
Durante la conferenza ho letto la poesia di Chirinos e in seguito, commentandola insieme al pubblico, ci siamo detti che lo scopo di ogni viaggio è proprio questo: entrare nel paesaggio, animarlo, aggiungere il proprio nome a quelli segnati sulla mappa. Ora, accanto alla mia pulcinella, mi viene in mente che osservare una mappa è un modo per imitare lo sguardo di chi si muove nel cielo… e di nuovo torna il motivo ricorrente del volo e dell’altezza.
Levitiamo quindi fino ai 2.850 metri di Quito, in Ecuador. Rispetto a Lima, basta salire un poco per vedere i confini della zona urbana: la città, circondata da montagne verdi, si sviluppa nel senso della lunghezza. Ho l’impressione che la breve permanenza a Quito sia stata segnata da una serie di ascensioni. Per esempio quella che porta al Panecillo, una collina a 3000 metri di quota. Proprio sulla cima c’è una statua in alluminio della Madonna: la Virgen del Panecillo, alta 45 metri. Venne creata nel 1976 dall’artista spagnolo Agustín de la Herrán Matorras; è la copia di una statua alta 30 cm, scolpita da Bernardo de Legarda nel 1734 e visibile sull’altare della chiesa di San Francesco, sempre a Quito. La Vergine è raffigurata secondo l’iconografia tradizionale, tranne un dettaglio: la Madonna ha le ali, come quelle di un angelo. Secondo la gente del posto è l’unica statua di Madonna alata al mondo.
Mentre ero a Quito, sebbene non avessi ancora cominciato a riflettere sul volo, sentivo un oscuro bisogno di continuare a salire. Ai margini del centro c’è una teleferica che, in un quarto d’ora, supera mille metri di dislivello e arriva fino a 4000 metri sul livello del mare. È uno dei più alti impianti del genere al mondo. La stazione d’arrivo si trova sulle pendici del Cruz Loma, nel massiccio vulcanico del Pichincha. Uno dei vulcani, il Guagua Pichincha, ha ripreso negli ultimi anni l’attività e ogni tanto esala sbuffi di vapore, gas solforosi, colonne di fumo.
Non ero mai stato tanto in alto. L’aria sottile, l’erba verde, i fiori colorati e le nuvole che si stracciavano all’orizzonte. Ogni cosa era limpida, ogni passo aveva un peso, un significato. Più in basso le case di Quito, come un’onda bianca, seguivano il saliscendi delle montagne. Tutto era lontano, minuscolo; le preoccupazioni, i crucci, le malinconie si riempivano di vento e volavano via, come palloncini. Il sole depositava minuscoli granelli d’oro nei miei pensieri, nei miei ricordi. Uno splendore molto simile si trova anche nel centro di Quito, racchiuso nella chiesa San Ignacio de Loyola de La Compañía de Jesús, detta semplicemente La Compañía. Costruito fra il 1605 e il 1765, è uno dei più importanti monumenti barocchi al mondo: le navate, le colonne, le pareti sono interamente ricoperte da lamine d’oro, tanto da creare l’impressione di essere vicinissimi al sole, anzi, di essere scivolati nel cuore del sole, nel punto in cui nascono i raggi.
A Quito ho avuto l’occasione di tenere un laboratorio di scrittura, nella sede della Società Dante Alighieri. Abbiamo letto insieme un testo di Calvino che comincia così: «La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. È un’ombra biancastra che affiora dall’azzurro intenso del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? È così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste.» Attraverso la luna, e senza mai aver letto Leopardi, gli studenti hanno scritto di sé stessi, di che cosa significhi vivere oggi a Quito, delle loro angosce, delle loro speranze. Un po’ in spagnolo, un po’ in italiano, abbiamo trovato un punto d’intesa che non era né il mio paese né l’Ecuador. Era la luna, che in un certo senso li contiene entrambi.
Mi accorgo che la pulcinella di mare dà segni d’impazienza. Forse ci ha preso gusto e vuole volare ancora. Ormai ha imparato come si fa: basta dire sciamano, pipistrello, yopo, gioielli, metamorfosi… e siamo al Museo del oro di Bogotà. All’interno, ancora una volta gli occhi sono invasi dallo splendore. La storia del museo cominciò nel 1939 con un poporo quimbaya (un vaso cerimoniale). Oggi l’edificio completamente rinnovato, nel centro di Bogotà, assembla la più importante collezione al mondo di arte pre-colombiana. Sono più di cinquantamila oggetti in metallo, ceramica, pietra, legno o stoffa; ma la maggior parte è naturalmente d’oro: gioielli, statue, oggetti sacri, maschere, bastoni, pettorali che brillano nelle varie sale. Il percorso espositivo permette di confrontare i tratti artistici delle varie culture indigene, che rivelano spesso un’impronta grafica soprendentemente moderna.
Osservando la collezione, si capisce come sia potuta nascere la leggenda che illuse tanti avventurieri europei. Uno di loro si chiamava Sebastian Moyano, detto Sebastian de Belalcazar dal nome del suo paese di nascita in Andalusia. Fu proprio lui che nel 1537 sentì parlare di un misterioso re che s’immergeva in una laguna ricoperto di polvere d’oro, gettando oggetti d’oro nella profondità delle acque. Presto crebbe la leggenda di una città lastricata di metallo giallo, governata dal misterioso e ricchissimo El Dorado. Qualcosa di vero c’era: effettivamente gli indigeni muisca cospargevano il corpo del loro cacique, del loro capo, di finissima polvere d’oro; ed effettivamente gettavano monili e altri oggetti nella laguna sacra di Guatavita, nei dintorni di Bogotà. Fra i reperti conservati al museo c’è la statua di una zattera, fatta di oro, che raffigura il cacique ricoperto d’oro, adornato di gioielli d’oro, attorniato da altri personaggi che recano stendardi d’oro… immagino come questa parola – oro! oro! oro! – martellasse nelle orecchie dei conquistadores, facendo loro perdere la testa (in senso figurato e in senso proprio).
E il volo? La pulcinella di mare m’incalza. Vuole sapere se anche a Bogotà c’era qualcosa o qualcuno che volasse. Basterebbe evocare il pesce con le ali trovato in una tomba a San Agustín. Lungo una decina di centimetri, sinuoso ed elegante come un sogno a occhi aperti, raffigura l’incontro fra acqua e aria, i due elementi che permettono ogni forma di esistenza. La sua bellezza, il suo mistero mi colpiscono e lasciano una ferita aperta, una domanda su di me, sulla mia vita, sul senso di questo impasto di idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto, sul destino di questi sette miliardi di miliardi di miliardi di atomi che rispondono al nome di Andrea.
Un altro aspetto che mi ha stupito è la continua metamorfosi. Nelle sale del museo appaiono figure votive e gioielli che mostrano sciamani nell’atto di trasformarsi. Nella Sierra Nevada di Santa Marta prevaleva l’uomo-pipistrello, presso i Muisca l’uomo-uccello, nel Sud Ovest l’uomo-giaguaro; ma ci sono anche uomini-rana, uomini-lucertola, uomini-cervo e uomini-granchio. Lo sciamano acquisiva le doti dell’animale: forza, potenza visiva, coraggio, capacità di volare. Per quanto riguarda il pipistrello, per esempio, ad attrarre gli sciamani era la facoltà di dormire a testa in giù e la capacità di muoversi al buio, durante la notte. Soprattutto, gli sciamani erano attratti – come potete immaginare – dalla possibilità di volare, sia dei pipistrelli sia degli uccelli. Un capo muisca del villaggio di Ubaque raccontò agli Spagnoli che durante i suoi voli giungeva fino a Santa Marta, sulla costa dei Caraibi, cioè a mille chilometri di distanza, e che tornava indietro nella stessa notte. Queste metamorfosi venivano compiute grazie a riti, digiuni, danze estenuanti e assunzione di allucinogeni come lo yopo.
La Colombia ha una storia vecchia di quindicimila anni. L’eredità delle popolazioni indigene è sempre viva: oggi si contano 84 gruppi che parlano 65 diverse lingue aborigene. Alcuni conservano la loro religione e usano nei loro rituali l’oro ereditato dai loro antenati. La loro cultura, incontrando quella europea e quella africana, ha generato il crogiolo di tradizioni, popoli, storie che contraddistingue la Colombia. Basta camminare per le vie del centro per vedere forme moderne di El Dorado (un uomo travestito da statua d’oro che si esibisce per i passanti), un poeta di strada (un uomo che batte a macchina e vende i suoi versi), studenti universitari, famiglie, uomini in giacca e cravatta, anziane donne con abiti colorati. Passando dalla periferia, si nota anche la stanchezza di questo paese, le sue lacerazioni, s’indovina la tensione sociale e il rischio della violenza. Le differenze culturali, come sempre, sono una ricchezza ma generano anche incomprensioni, paure, steccati ideologici.
Come a Lima e a Quito, anche a Bogotà non sono mancati gli incontri, sempre preziosi perché mi hanno permesso di assorbire qualche frammento non solo dei monumenti e dei paesaggi, ma anche delle faccende quotidiane, che sono la vera anima di un luogo. Incontri in libreria, conferenze, lezioni… la parte ufficiale del viaggio è stata un’occasione per riflettere sul mio lavoro di scrittore, sulla mia identità multipla, sul senso delle mie parole. Ma i pranzi, le cene, le conversazioni a tu per tu durante un aperitivo o dopo una conferenza mi hanno donato quel valore aggiunto, quel supplemento di umanità che è stato il vero cuore di questa esperienza. I viaggi più riusciti, in fondo, non sono quelli da cui si torna con fotografie e souvenir, ma quelli che ci lasciano un bagaglio di volti, accenti diversi e parole da custodire.
Nessuno sa con precisione come e dove le pulcinelle di mare passino la maggior parte dell’anno. Alla fine dell’estate abbandonano la terra e vanno da qualche parte nel mare aperto. Usano i piedi palmati e le ali per nuotare, e sanno immergersi fino a sessanta metri di profondità. Vivono, mangiano, si riposano sulle onde, circondati solo dall’acqua e dal cielo. Poi, in primavera, ogni anno partono e ritrovano esattemente lo stesso nido nella stessa scogliera. Gli studiosi non hanno mai capito come riescano ogni anno a indovinare la via per tornare a casa. Probabilmente usano punti di riferimento visivi insieme a odori e suoni. Qualcuno dice che a guidarli siano i campi magnetici della terra. Altri sono convinti che si orientino con le stelle.
Mi rivolgo alla mia fratercula. Partire è una grande sfida, ma ritrovare la strada è ancora più stupefacente. Come si fa, le chiedo. Come si può vivere nel mare aperto, senza confini, e poi nonostante tutto tornare a casa? La pulcinella mi guarda e non risponde. Accenna appena un sorriso. E rimane lì, sul punto di spiccare il volo.

PS: Grazie a Gregorio, il mio compagno di viaggio e l’autore della maggior parte delle fotografie che corredano questo articolo. Senza di lui non avrei potuto né partire, né ritrovare la strada di casa.

PPS: Esprimo la mia gratitudine a tutte le persone che mi hanno accolto. Primo fra tutti Patrick Egloff, dell’ambasciata Svizzera in Colombia, che ha ideato e coordinato questo tour sudamericano. Ringrazio Markus-Alexander Antonietti, ambasciatore svizzero in Perù; Esther Marie-Merz dell’ambasciata svizzera in Perù; Gabriele La Posta, direttore dell’Istituto italiano di cultura di Lima; Giancarlo Maria Curcio, ambasciatore italiano in Perù, e tutti i suoi collaboratori; Uberto Malizia, direttore dell’Istituto italiano di cultura a Bogotà; Michela Licitra dell’ambasciata italiana in Colombia; Andrea Izquierdo dell’Istituto italiano di cultura a Bogotà; Sergio Bardaro dell’ambasciata svizzera in Ecuador; Fabio Fusi, direttore della Società Dante Alighieri di Quito; Ximena Lopez Arias dell’ambasciata svizzera in Colombia; Manuela Leimgruber, che ha organizzato uno splendido cocktail; Fabrizio Poretti, Ana Gonzales Rojas e le altre persone conosciute al cocktail; Sveva Borla e, in generale, tutte le persone che ho incontrato alle conferenze, a pranzo, a cena o in libreria; le studentesse e gli studenti; Nathalie Lugo e tutte le traduttrici che mi hanno aiutato a raccontare le mie storie.


PPPS: Per scrivere questo articolo ho consultato il sito del National Geographic e i seguenti volumi: Caspar Henderson, Il libro degli esseri a malapena immaginari (Adelphi 2018, traduzione di Massimo Bocchiola; l’originale The book of barely imagined beings risale al 2012); Yuri Leveratto, La ricerca dell’El Dorado (Infinito 2008); AAVV, Museo del oro (Banco de la república 2008).

PPPPS: Ecco la poesia di Eduardo Chirinos (tratta da Breve Historia de la música, Colección Visor de Poesia, Madrid 2001). L’autore nacque a Lima nel 1960 e morì nel 2016.

AYO VISTO LO MAPPAMUNDI
(Anónimo siciliano, c. 1492)

Una vez más
abrí las ventanas del mar

 (Qué mudo el espumoso mar
qué ciegas las montañas)

 ¿Veré tu nombre en el mapa?

 Con el dedo recorrí
mil desiertos y comarcas
Con mil ojos los mares
donde navegan las barcas

 (Qué callada noche cautiva
qué silenciosa mañana)

 ¿Veré tu nombre en el mapa?

 

 

 

 

 

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