Sulla mia scrivania c’è una pulcinella di mare (fratercula arctica). È piccola, con il manto nero, il petto bianco. Le zampe e il grande becco sono arancioni. Va precisato che mai la pulcinella di mare spiccherà il volo, dal momento che non si tratta di un uccello bensì di un’ocarina. In altre parole, è uno strumento musicale travestito da pulcinella. Ci siamo incontrati qualche mese fa a Lima, in Perù. Lei stava in una cesta con altre ocarine a forma di uccello. Mi guardava. Io non avevo intenzione di comperare ocarine, però lei mi guardava. E ora eccola qui, accanto al mio computer. Io scrivo, lei continua a fissarmi. Entrambi, lo sappiamo bene, non voleremo mai. Ma entrambi desideriamo volare.
La fratercula arctica vive nell’Atlantico settentrionale e sfreccia nell’aria a novanta chilometri all’ora, battendo le ali quattrocento volte al minuto. La mia fratercula da scrivania, invece, proviene dal Perù, sta ferma e ascolta il ticchettio dei tasti. Credo che, pur essendo di terracotta, conservi dentro di sé un barlume di nostalgia per gli immensi cieli nel nord, le scogliere, il fragore delle onde. E io? In quanto essere umano, ovviamente, non posso volare (intendo volare davvero, senza deltaplani, elicotteri, astronavi o paracadute). Ma proprio in quanto homo sapiens, covo una segreta aspirazione a librarmi nell’aria. Fra le più antiche narrazioni giunte fino a noi ci sono testi cuneiformi assiri del II millennio a.C. in cui si menziona il sogno di volare. Ma secondo me già l’australopithecus afarensis, dopo aver imparato a camminare in posizione eretta, deve avere accarezzato il sogno di un altro passo evolutivo: sollevarsi, muoversi nel vuoto, cambiare orizzonte alla velocità con cui mutano i pensieri.
Torniamo alla tastiera del mio computer. Per due esseri irrimediabilmente terrestri come me e la mia povera fratercula mensae scriptoriae, scrivere parole che portino lontano può, almeno in parte, sostituire l’azione di volare.
Prima ho scritto “Perù”. Adesso aggiungo: domenica mattina, primavera, pisco sour, palme, mirador. Chiudo gli occhi un istante, li riapro in Plaza de Armas. Appena finiscono di battere le campane della Catedral, una banda attacca a suonare davanti al Palazzo presidenziale.
Intorno, possenti edifici di colore giallo, con balconi di legno intarsiato, palmizi, una certa atmosfera coloniale, come se il tempo non fosse passato. Ma è un’illusione: niente è immobile in questa città. La periferia si espande a vista d’occhio, con ondate di migrazione dalle campagne che hanno reso Lima la seconda città più popolosa del Sudamerica (dopo San Paolo). Più di nove milioni di abitanti, più di nove milioni di cuori che battono, cervelli che sognano e soffrono e sperano, anche loro, di volare.
Nel mese di ottobre sono stato in Sudamerica per un giro di conferenze: prima a Lima, in Perù, poi a Quito (Ecuador) e infine a Bogotà (Colombia). Il tutto in una decina di giorni. Poco tempo per vedere con calma, per ascoltare, per tentare di capire una città. Del resto, per capirla davvero non basta una vita. Ma anche in poche ore possono accadere incontri, sorprese, piccole folgorazioni. Se rileggo il mio taccuino, trovo annotazioni accomunate dalla tensione verso l’alto, come se il pensiero sotterraneo del volo avesse permeato quei giorni senza che me ne rendessi conto.
Condivido altre parole con voi e la pulcinella: piramide, argilla, Huaca Pucllana, vasosqualo. E subito siamo nel quartiere di Miraflores, a sud della città. Proprio in mezzo al tessuto urbano, sorgono le rovine precolombiane di una piramide che risale al 500 d.C., lasciate da una civiltà che abitava la valle del fiume Ribac.
Tutto, in questo sito archeologico, trasmette volontà di resistenza e trasformazione. La piramide sale, perché i riti più profondi dovevano avvenire vicino al cielo. I mattoni di adobe sono disposti in maniera verticale, come tanti libri nello scaffale di una libreria, in maniera da resistere alle scosse sismiche. Nel piccolo museo noto una vasija ceremonial con rostro escultórico de tiburones. Si tratta di un vaso con la faccia da pescecane, che immagino indeciso fra l’ancestrale esigenza di sbranare e la quotidiana funzione di contenere.
Nello stesso quartiere, a poca distanza, la città finisce ai bordi dell’Oceano Pacifico. Anche in questo caso, per cogliere l’ampiezza dell’Oceano, bisogna salire fino al punto di osservazione più alto. In mezzo ai belvedere e ai punti di ristoro, scopro una panchina divelta, mezzo sepolta nell’erba. È protetta da un terrapieno, perciò, appoggiato contro lo schienale, sento svanire le voci dei passanti con il loro turbinio di selfie, sento perdersi anche le strade, le case, le automobili. Per qualche secondo, mi pare di essere solo davanti al Pacifico. Basterebbe così poco. Un fremito del corpo, un battito d’ali. Invece solo il pensiero vola, immaginando velieri, burrasche, isole sconosciute.
Mentre andavo all’Istituto italiano di cultura, dove avrei tenuto una conferenza, mi sono imbattuto in una libreria. Un piccolo volume di poesie ha attirato la mia attenzione: Eduardo Chirinos, Breve historia de la música. Ogni lirica è abbinata a un brano musicale, dai compositori del XIV secolo a Cage, passando per Mozart, Gershwin e molti altri. Fra le composizioni che hanno ispirato l’autore c’è un canto anonimo siciliano del 1492: Ayo visto lo mappamundi. Percorrendo la carta del mondo a volo d’uccello, l’anonimo autore esprime la convinzione che la Sicilia sia la regione più bella di tutte, facendo poi un gioco di parole fra due significati di Cicilia: il luogo geografico e il nome della sua amata. Chirinos fa suo lo sguardo dell’anonimo siciliano: con il dito percorre dall’alto le catene montuose, i mari, i deserti. E si chiede: ¿Veré tu nombre en el mapa? Vedrò il tuo nome sulla mappa?
Durante la conferenza ho letto la poesia di Chirinos e in seguito, commentandola insieme al pubblico, ci siamo detti che lo scopo di ogni viaggio è proprio questo: entrare nel paesaggio, animarlo, aggiungere il proprio nome a quelli segnati sulla mappa. Ora, accanto alla mia pulcinella, mi viene in mente che osservare una mappa è un modo per imitare lo sguardo di chi si muove nel cielo… e di nuovo torna il motivo ricorrente del volo e dell’altezza.
Levitiamo quindi fino ai 2.850 metri di Quito, in Ecuador. Rispetto a Lima, basta salire un poco per vedere i confini della zona urbana: la città, circondata da montagne verdi, si sviluppa nel senso della lunghezza. Ho l’impressione che la breve permanenza a Quito sia stata segnata da una serie di ascensioni. Per esempio quella che porta al Panecillo, una collina a 3000 metri di quota. Proprio sulla cima c’è una statua in alluminio della Madonna: la Virgen del Panecillo, alta 45 metri. Venne creata nel 1976 dall’artista spagnolo Agustín de la Herrán Matorras; è la copia di una statua alta 30 cm, scolpita da Bernardo de Legarda nel 1734 e visibile sull’altare della chiesa di San Francesco, sempre a Quito. La Vergine è raffigurata secondo l’iconografia tradizionale, tranne un dettaglio: la Madonna ha le ali, come quelle di un angelo. Secondo la gente del posto è l’unica statua di Madonna alata al mondo.
Mentre ero a Quito, sebbene non avessi ancora cominciato a riflettere sul volo, sentivo un oscuro bisogno di continuare a salire. Ai margini del centro c’è una teleferica che, in un quarto d’ora, supera mille metri di dislivello e arriva fino a 4000 metri sul livello del mare. È uno dei più alti impianti del genere al mondo. La stazione d’arrivo si trova sulle pendici del Cruz Loma, nel massiccio vulcanico del Pichincha. Uno dei vulcani, il Guagua Pichincha, ha ripreso negli ultimi anni l’attività e ogni tanto esala sbuffi di vapore, gas solforosi, colonne di fumo.
Non ero mai stato tanto in alto. L’aria sottile, l’erba verde, i fiori colorati e le nuvole che si stracciavano all’orizzonte. Ogni cosa era limpida, ogni passo aveva un peso, un significato. Più in basso le case di Quito, come un’onda bianca, seguivano il saliscendi delle montagne. Tutto era lontano, minuscolo; le preoccupazioni, i crucci, le malinconie si riempivano di vento e volavano via, come palloncini. Il sole depositava minuscoli granelli d’oro nei miei pensieri, nei miei ricordi. Uno splendore molto simile si trova anche nel centro di Quito, racchiuso nella chiesa San Ignacio de Loyola de La Compañía de Jesús, detta semplicemente La Compañía. Costruito fra il 1605 e il 1765, è uno dei più importanti monumenti barocchi al mondo: le navate, le colonne, le pareti sono interamente ricoperte da lamine d’oro, tanto da creare l’impressione di essere vicinissimi al sole, anzi, di essere scivolati nel cuore del sole, nel punto in cui nascono i raggi.
A Quito ho avuto l’occasione di tenere un laboratorio di scrittura, nella sede della Società Dante Alighieri. Abbiamo letto insieme un testo di Calvino che comincia così: «La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. È un’ombra biancastra che affiora dall’azzurro intenso del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? È così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste.» Attraverso la luna, e senza mai aver letto Leopardi, gli studenti hanno scritto di sé stessi, di che cosa significhi vivere oggi a Quito, delle loro angosce, delle loro speranze. Un po’ in spagnolo, un po’ in italiano, abbiamo trovato un punto d’intesa che non era né il mio paese né l’Ecuador. Era la luna, che in un certo senso li contiene entrambi.
Mi accorgo che la pulcinella di mare dà segni d’impazienza. Forse ci ha preso gusto e vuole volare ancora. Ormai ha imparato come si fa: basta dire sciamano, pipistrello, yopo, gioielli, metamorfosi… e siamo al Museo del oro di Bogotà. All’interno, ancora una volta gli occhi sono invasi dallo splendore. La storia del museo cominciò nel 1939 con un poporo quimbaya (un vaso cerimoniale). Oggi l’edificio completamente rinnovato, nel centro di Bogotà, assembla la più importante collezione al mondo di arte pre-colombiana. Sono più di cinquantamila oggetti in metallo, ceramica, pietra, legno o stoffa; ma la maggior parte è naturalmente d’oro: gioielli, statue, oggetti sacri, maschere, bastoni, pettorali che brillano nelle varie sale. Il percorso espositivo permette di confrontare i tratti artistici delle varie culture indigene, che rivelano spesso un’impronta grafica soprendentemente moderna.
Osservando la collezione, si capisce come sia potuta nascere la leggenda che illuse tanti avventurieri europei. Uno di loro si chiamava Sebastian Moyano, detto Sebastian de Belalcazar dal nome del suo paese di nascita in Andalusia. Fu proprio lui che nel 1537 sentì parlare di un misterioso re che s’immergeva in una laguna ricoperto di polvere d’oro, gettando oggetti d’oro nella profondità delle acque. Presto crebbe la leggenda di una città lastricata di metallo giallo, governata dal misterioso e ricchissimo El Dorado. Qualcosa di vero c’era: effettivamente gli indigeni muisca cospargevano il corpo del loro cacique, del loro capo, di finissima polvere d’oro; ed effettivamente gettavano monili e altri oggetti nella laguna sacra di Guatavita, nei dintorni di Bogotà. Fra i reperti conservati al museo c’è la statua di una zattera, fatta di oro, che raffigura il cacique ricoperto d’oro, adornato di gioielli d’oro, attorniato da altri personaggi che recano stendardi d’oro… immagino come questa parola – oro! oro! oro! – martellasse nelle orecchie dei conquistadores, facendo loro perdere la testa (in senso figurato e in senso proprio).
E il volo? La pulcinella di mare m’incalza. Vuole sapere se anche a Bogotà c’era qualcosa o qualcuno che volasse. Basterebbe evocare il pesce con le ali trovato in una tomba a San Agustín. Lungo una decina di centimetri, sinuoso ed elegante come un sogno a occhi aperti, raffigura l’incontro fra acqua e aria, i due elementi che permettono ogni forma di esistenza. La sua bellezza, il suo mistero mi colpiscono e lasciano una ferita aperta, una domanda su di me, sulla mia vita, sul senso di questo impasto di idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto, sul destino di questi sette miliardi di miliardi di miliardi di atomi che rispondono al nome di Andrea.
Un altro aspetto che mi ha stupito è la continua metamorfosi. Nelle sale del museo appaiono figure votive e gioielli che mostrano sciamani nell’atto di trasformarsi. Nella Sierra Nevada di Santa Marta prevaleva l’uomo-pipistrello, presso i Muisca l’uomo-uccello, nel Sud Ovest l’uomo-giaguaro; ma ci sono anche uomini-rana, uomini-lucertola, uomini-cervo e uomini-granchio. Lo sciamano acquisiva le doti dell’animale: forza, potenza visiva, coraggio, capacità di volare. Per quanto riguarda il pipistrello, per esempio, ad attrarre gli sciamani era la facoltà di dormire a testa in giù e la capacità di muoversi al buio, durante la notte. Soprattutto, gli sciamani erano attratti – come potete immaginare – dalla possibilità di volare, sia dei pipistrelli sia degli uccelli. Un capo muisca del villaggio di Ubaque raccontò agli Spagnoli che durante i suoi voli giungeva fino a Santa Marta, sulla costa dei Caraibi, cioè a mille chilometri di distanza, e che tornava indietro nella stessa notte. Queste metamorfosi venivano compiute grazie a riti, digiuni, danze estenuanti e assunzione di allucinogeni come lo yopo.
La Colombia ha una storia vecchia di quindicimila anni. L’eredità delle popolazioni indigene è sempre viva: oggi si contano 84 gruppi che parlano 65 diverse lingue aborigene. Alcuni conservano la loro religione e usano nei loro rituali l’oro ereditato dai loro antenati. La loro cultura, incontrando quella europea e quella africana, ha generato il crogiolo di tradizioni, popoli, storie che contraddistingue la Colombia. Basta camminare per le vie del centro per vedere forme moderne di El Dorado (un uomo travestito da statua d’oro che si esibisce per i passanti), un poeta di strada (un uomo che batte a macchina e vende i suoi versi), studenti universitari, famiglie, uomini in giacca e cravatta, anziane donne con abiti colorati. Passando dalla periferia, si nota anche la stanchezza di questo paese, le sue lacerazioni, s’indovina la tensione sociale e il rischio della violenza. Le differenze culturali, come sempre, sono una ricchezza ma generano anche incomprensioni, paure, steccati ideologici.
Come a Lima e a Quito, anche a Bogotà non sono mancati gli incontri, sempre preziosi perché mi hanno permesso di assorbire qualche frammento non solo dei monumenti e dei paesaggi, ma anche delle faccende quotidiane, che sono la vera anima di un luogo. Incontri in libreria, conferenze, lezioni… la parte ufficiale del viaggio è stata un’occasione per riflettere sul mio lavoro di scrittore, sulla mia identità multipla, sul senso delle mie parole. Ma i pranzi, le cene, le conversazioni a tu per tu durante un aperitivo o dopo una conferenza mi hanno donato quel valore aggiunto, quel supplemento di umanità che è stato il vero cuore di questa esperienza. I viaggi più riusciti, in fondo, non sono quelli da cui si torna con fotografie e souvenir, ma quelli che ci lasciano un bagaglio di volti, accenti diversi e parole da custodire.
Nessuno sa con precisione come e dove le pulcinelle di mare passino la maggior parte dell’anno. Alla fine dell’estate abbandonano la terra e vanno da qualche parte nel mare aperto. Usano i piedi palmati e le ali per nuotare, e sanno immergersi fino a sessanta metri di profondità. Vivono, mangiano, si riposano sulle onde, circondati solo dall’acqua e dal cielo. Poi, in primavera, ogni anno partono e ritrovano esattemente lo stesso nido nella stessa scogliera. Gli studiosi non hanno mai capito come riescano ogni anno a indovinare la via per tornare a casa. Probabilmente usano punti di riferimento visivi insieme a odori e suoni. Qualcuno dice che a guidarli siano i campi magnetici della terra. Altri sono convinti che si orientino con le stelle.
Mi rivolgo alla mia fratercula. Partire è una grande sfida, ma ritrovare la strada è ancora più stupefacente. Come si fa, le chiedo. Come si può vivere nel mare aperto, senza confini, e poi nonostante tutto tornare a casa? La pulcinella mi guarda e non risponde. Accenna appena un sorriso. E rimane lì, sul punto di spiccare il volo.
PS: Grazie a Gregorio, il mio compagno di viaggio e l’autore della maggior parte delle fotografie che corredano questo articolo. Senza di lui non avrei potuto né partire, né ritrovare la strada di casa.
PPS: Esprimo la mia gratitudine a tutte le persone che mi hanno accolto. Primo fra tutti Patrick Egloff, dell’ambasciata Svizzera in Colombia, che ha ideato e coordinato questo tour sudamericano. Ringrazio Markus-Alexander Antonietti, ambasciatore svizzero in Perù; Esther Marie-Merz dell’ambasciata svizzera in Perù; Gabriele La Posta, direttore dell’Istituto italiano di cultura di Lima; Giancarlo Maria Curcio, ambasciatore italiano in Perù, e tutti i suoi collaboratori; Uberto Malizia, direttore dell’Istituto italiano di cultura a Bogotà; Michela Licitra dell’ambasciata italiana in Colombia; Andrea Izquierdo dell’Istituto italiano di cultura a Bogotà; Sergio Bardaro dell’ambasciata svizzera in Ecuador; Fabio Fusi, direttore della Società Dante Alighieri di Quito; Ximena Lopez Arias dell’ambasciata svizzera in Colombia; Manuela Leimgruber, che ha organizzato uno splendido cocktail; Fabrizio Poretti, Ana Gonzales Rojas e le altre persone conosciute al cocktail; Sveva Borla e, in generale, tutte le persone che ho incontrato alle conferenze, a pranzo, a cena o in libreria; le studentesse e gli studenti; Nathalie Lugo e tutte le traduttrici che mi hanno aiutato a raccontare le mie storie.
PPPS: Per scrivere questo articolo ho consultato il sito del National Geographic e i seguenti volumi: Caspar Henderson, Il libro degli esseri a malapena immaginari (Adelphi 2018, traduzione di Massimo Bocchiola; l’originale The book of barely imagined beings risale al 2012); Yuri Leveratto, La ricerca dell’El Dorado (Infinito 2008); AAVV, Museo del oro (Banco de la república 2008).
PPPPS: Ecco la poesia di Eduardo Chirinos (tratta da Breve Historia de la música, Colección Visor de Poesia, Madrid 2001). L’autore nacque a Lima nel 1960 e morì nel 2016.
AYO VISTO LO MAPPAMUNDI
(Anónimo siciliano, c. 1492)
Una vez más
abrí las ventanas del mar
(Qué mudo el espumoso mar
qué ciegas las montañas)
¿Veré tu nombre en el mapa?
Con el dedo recorrí
mil desiertos y comarcas
Con mil ojos los mares
donde navegan las barcas
(Qué callada noche cautiva
qué silenciosa mañana)
¿Veré tu nombre en el mapa?