Sud

Nel corso della nostra vita possiamo scoprire di appartenere a luoghi che non abbiamo mai visto. Come dice Marcel Proust, anche da una visuale puramente realistica, i paesi che noi desideriamo tengono in ogni istante assai più posto nella nostra esistenza vera dei paesi dove abitiamo in realtà. Nella sezione della Strada di Swann intitolata Nomi di paesi: il nome, Proust accenna alla forza evocativa dei toponimi.
Esistono parecchi modi di viaggiare, che implicano più o meno dispendio di mezzi e di tempo. Uno dei più semplici è senza dubbio quello di limitarsi a pronunciare un nome, lasciando che esso susciti assonanze, ricordi e sensazioni. Questo vale per i posti che abbiamo già visto, poiché essi, come annota lo stesso Proust, diventano un tentativo di fissare il tempo: I luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio, nel quale li situiamo per maggiore facilità. Essi sono solamente uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che costituivano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo minuto; e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimè, come gli anni.
Ma pronunciare nomi non è solo un esercizio nostalgico. A volte si tratta davvero di un modo per svegliare la fantasia, specialmente quando elenchiamo luoghi che non abbiamo mai visto. Per questa ragione, spero che non scompaia del tutto il vecchio Orario Ferroviario cartaceo, con la lista delle stazioni e delle coincidenze. È una lettura ideale prima di andare a letto: i nomi, scritti l’uno in fila all’altro, diventano montagne, laghi, precipizi, cascate, strade fragorose, vicoli, sentieri abbandonati.
Altri “viaggi non viaggiati” sono i cartelli che appaiono in autostrada o dai finestrini del treno, anche lungo i tragitti abituali. Ogni volta che vado a Milano non posso fare a meno d’immaginare Gradate, Fino Mornasco, Lomazzo, Turate, Origgio, Uboldo… Per qualcuno saranno toponimi banali, soprattutto se ci è nato o vissuto, invece per me sono occasioni a portata di mano: un giorno magari mi fermerò, o forse no. I toponimi delle mie parti – Lugano, Lamone, Taverne, Rivera, Bellinzona, Corvesco, Airolo – per me sono un frammento di quotidianità, mentre per qualcuno potrebbero rappresentare l’ignoto.
Il deserto, per esempio, è un luogo che da sempre risveglia in me un misterioso senso di appartenenza. Sono cresciuto in mezzo a valli e montagne, perciò sono più abituato all’altezza, ai boschi, ai declivi. Eppure da qualche parte dentro di me riposa una strana nostalgia per paesaggi che non ho mai visto, per distese di sabbia silenziose e palmizi che tremano all’orizzonte. Di recente mi sono imbattuto in un poema composto nel 1903 da Mokhammed äg Mekhiia, un autore tuareg nato nel 1870. È una lunga fantasticheria, nella quale il poeta passa in rassegna i luoghi che lo separano dalla sua amata. Il testo diventa una rassegna di nomi, simile a quelli che gli studiosi di letteratura araba chiamano “poemi geografici”; l’etnografo Dominique Casajus propone invece, per la rêverie di Mokhammed äg Mekhiia, la definitione di poème de Noms de Pays, con un chiaro riferimento a Proust. Ecco qualche verso in lingua originale.

[…]
Nei Tamada, netrem Êlisen,
Nas Ti-n-täğart ed Ihaouaghâten,
D Ädîkel et Mechredden
Et Tékadeout, netrem Ihaien
Et Tehalaouait, asegh Iouallen
Et Ti-n-täğart, ekkegh I-n-semmen;
Neğ dât-ämoud, eklegh Âseqqen,
Nei Ti-n-älous, ekkegh Âseqqen,
Nas dägg äğêdé dagh Oulaouen.
Ğïgh Tenist dagh gân bareqqâten;
A n nermes akli n Selâmâten
Ğïgh Ti-n-täouâfa d Bereghrâghen.
[…]

Non ci sarebbe quasi bisogno di traduzione, tanto questa litania evoca di per sé stessa la fatica del cammino nel deserto, la lunghezza del viaggio e l’arsura della sete, con la tensione del desiderio che, di luogo in luogo, corre verso l’amata (e verso la freschezza dell’oasi). Anche il ritmo non è casuale: intono il mio canto – scrive Kourman, un altro poeta tuareg – e il passo del cammello mi dà la cadenza. La parola elweylwey, anche soltanto con il suono, richiama la marcia del méhari, il dromedario da monta che si usa nel deserto.
Ecco la traduzione in italiano dei versi di Mokhammed äg Mekhiia: Lasciamoci alle spalle Tamada, scendiamo lungo la valle di Êlisen, andiamo nella valle di Ti-n-täğart e in quella di Ihaouaghâten, raggiungiamo Ädîkel, Imechredden e Tékadeout, scendiamo le valli di Ihaien e di Tehalaouait, troviamo le acque di Iouallen e a quelle di Ti-n-täğart, andiamo a quelle di I-n-semmen; partiamo all’ultimo terzo della notte, fermiamoci a Âseqqen nelle ore calde del giorno, lasciamoci alle spalle il monte Ti-n-älous, andiamo nella valle di Âseqqen, arriviamo ai piedi delle dune di Oulaouen. Passo dal colle Tenist con le sue piste numerose; incontro lo schiavo di un uomo della tribù degli Iselâmâten tra il monte Ti-n-täouâfa e il monte Ibereghrâghen.
Alla fine uno si sente esausto come se davvero avesse percorso le dune del Sahara; in effetti, forse, anche questo è un modo di esplorare il deserto. Non so spiegarmi le ragioni dell’affinità che sento con questi nomadi e queste terre così lontane dalla mia esperienza. Ma quando penso all’origine, penso al sud. Nella mia mente, da sud viene un chiarore primigenio di cose ancora abbozzate, di speranze, di storie appena sorte.
Credo che la letteratura viva anche grazie a queste divagazioni, nel tempo e nello spazio. I nomi nell’Orario Ferroviario s’incrociano con il méhari dei tuareg: è un fermento, una crescita misteriosa che conduce a nuove storie.
Un’altra città che non ho visto è Buenos Aires. Il nome suscita vie, piazze, musiche e ombre che forse non conoscerò mai dal vivo. Tuttavia mi basta leggere qualche verso di Borges per sentirmi come se anch’io fossi stato laggiù, tra portici e cisterne, e avessi contemplato le costellazioni dell’emisfero sud da un cortile nascosto.

Desde uno de tus patios haber mirado
las antiguas estrellas,
desde el banco de
la sombra haber mirado
esas luces dispersas
que mi ignorancia no ha aprendido a nombrar
ni a ordenar en constelaciones,
haber sentido el círculo del agua
en el secreto aljibe,
el olor del jazmín y la madreselva,
el silencio del pájaro dormido,
el arco del zaguán, la humedad
– esas cosas, acaso, son el poema.

La lirica s’intitola El sur ed è tratta da Fervor de Buenos Aires, una raccolta pubblicata da Borges nel 1923. Ecco la traduzione: Da uno dei tuoi cortili aver guardato / le antiche stelle, / dal sedile in / ombra aver guardato / quelle luci disperse / che la mia ignoranza non ha imparato a nominare / né a ordinare in costellazioni, / aver sentito il cerchio dell’acqua / nella segreta cisterna, / l’odore del gelsomino e della madreselva, / il silenzio dell’uccello addormentato, / l’arco dell’androne, l’umidità / – tali cose, forse, sono la poesia.
Se Proust e Mokhammed äg Mekhiia traggono l’incanto poetico dai toponimi, Borges invece qui lavora proprio sull’assenza di nomi, con quelle antiche stelle, quelle luci disperse / che la mia ignoranza non ha imparato a nominare. Ma a volte non c’è bisogno di sapere neppure i nomi. A volte basta una parola sola, di sole tre lettere, per portarci in capo al mondo. Sud.

PS: La traduzione di À côté de chez Swann. III. Nom de pays: le nom, pubblicato da Proust nel 1913, è quella scritta per Einaudi da Natalia Ginzburg del 1946 (poi rivista dall’autrice stessa nel 1990). I versi di Mokhammed äg Mekhiia si trovano in Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Il poema è citato anche da Dominique Casajus in Gens de parole. Langage, poésie et politique en pays touareg (La Découverte, Paris 2000). Dal volume di Casajus provengono pure i versi di Kourman (nato nel 1912 e morto nel 1989). La traduzione in italiano è mia, a partire dalle versioni francesi di Foucauld e Casajus. La traduzione di Borges è di Domenico Porzio, tratta da Tutte le opere (Mondadori 1984).

PPS: La prima immagine è un’edizione della Recherche che apparteneva allo stesso Proust; la seconda (presa dal sito Le fou du Proust) raffigura l’Orario ferroviario edito da Chaix nel 1906: era forse quello a cui si riferiva Proust quando, nel 1907, scrisse su “Le Figaro” che la saggezza sarebbe sostituire tutte le relazioni moderne e molti viaggi con la lettura dell’Almanacco del Gotha e dell’Orario ferroviario. La terza foto (presa dal sito Proust-ink) rappresenta la stazione di Illiers, chiamata Combray nella Recherche e ora ufficialmente Illiers-Combray. Le immagini del deserto sono tratte dal numero 84 della rivista “Meridiani” (dicembre 1999) e dal volume I Tuareg dell’Aïr di Ketty Adornato (testo) e Rino Cardone (foto), edito da Città del Sole (2005) per l’organizzazione umanitaria Bambini nel Deserto.

PPPS: Questo articolo riprende parzialmente Le antiche stelle, un breve saggio che ho scritto per l’ottavo numero della rivista letteraria Achab (in uscita la settimana prossima). Ringrazio per lo spunto e per la collaborazione Nando Vitali, Maria Rosaria Vado e Vincenzo Gambardella.

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Di palombari e montagne

Era un giorno d’estate quando Tommi, svegliandosi la mattina, decise di ammazzare qualcuno. La sera non aveva chiuso le gelosie, così prima che suonasse la sveglia un raggio di sole l’aveva già strappato dal sonno. In realtà non fu una vera e propria decisione, ma una vaga idea che si diffuse tra i residui di sogno e il primo pensiero cosciente.
Comincia così il mio romanzo L’uomo senza casapubblicato nel 2008 da Guanda e ristampato poche settimane fa in edizione tascabile (da tempo era esaurito). In questi giorni sono tornato a sfogliare questo libro, per preparare una conferenza che terrò venerdì 2 giugno alle 18 a Malvaglia, nell’Atelier Titta Ratti (proprio a Malvaglia è in parte ambientata la vicenda).
L’uomo senza casa racconta di un paese di montagna sommerso dall’acqua per la costruzione di una diga. In quel villaggio è cresciuto Elia Contini, che tanti anni dopo tenta di sbarcare il lunario inventandosi il mestiere d’investigatore privato nella Svizzera italiana. E nello stesso villaggio è nato anche Tommaso Porta. Tommi è un coetaneo di Contini, un uomo fragile, squilibrato, che negli anni ha covato sempre di più un sentimento di odio e rancore. Piano piano, intorno a quel lago di montagna e a quelle case sommerse, cresce la tensione, la rabbia, la violenza fisica e quella burocratica, altrettanto temibile.
Per l’idea del lago artificiale e delle case sotto l’acqua mi sono ispirato a un ricordo d’infanzia. Quando avevo circa dodici anni, mi capitò di salire con i miei famigliari in valle Malvaglia, dove nacque la mia bisnonna Maria Abate (poi Maria Maggini). La sua famiglia viveva la transumanza stagionale, facendo la spola fra il villaggio principale e i vari maggenghi e alpeggi o “monti”. Il più alto è in una valle laterale, la val Combra, e si chiama Pulgabi.
Salimmo dunque fin lassù e passammo lungo la diga, dove sulla destra c’è la galleria dentro la roccia che sbuca sul sentiero per la val Combra. Mio padre mi spiegò che sotto quella massa di acqua immobile erano seppellite cascine, stalle, campi, muretti e sentieri. E anche un oratorio con porticato. Davanti a quell’oratorio sostavano le donne che salivano ai vari “monti” con la gerla sulle spalle. Camminavano insieme da Malvaglia; all’oratorio, dopo una preghiera, le donne che proseguivano per la valle Malvaglia si separavano da quelle che salivano verso la val Combra. Anche la mia bisnonna ragazzina e con lei sua madre si saranno fermate decine di volte sotto quel porticato. Mio padre mi raccontava che l’oratorio è ancora in piedi, giù in fondo al lago, come un resto spettrale, acquatico, quasi il fantasma di una vita perduta.
Anni dopo, scrivendo L’uomo senza casa, modificai molte cose, cambiai la cronologia degli eventi e immaginai che sotto il lago ci fosse un intero villaggio, con la casa di famiglia di Tommi Porta e anche quella di Elia Contini. Seguendo il filo della storia, mi accorsi che quelle casupole di sasso, sepolte al buio e al freddo della dimenticanza, avevano ancora una storia da raccontare. C’erano vecchi delitti, segreti da non rivelare, nodi da sciogliere. E allora ecco che Contini diventa palombaro, per un tuffo nell’acqua azzurra e soprattutto per un tuffo dentro il tempo, anch’esso azzurro e misterioso, come le montagne che appaiono in lontananza.
La vicenda poliziesca si sviluppa fra omicidi e imbrogli legati alla speculazione edilizia. Sullo sfondo, c’è anche il riciclaggio di denaro di un giro di società off shore. La mia intenzione narrativa era quella d’intrecciare l’aspetto più spettacolare e poliziesco con la risonanza più intima e sommessa della diga, della casa in fondo al lago, del viaggio che ognuno di noi prima o poi deve intraprendere alla ricerca di un luogo da chiamare “casa”.
Elia Contini, il protagonista, è cresciuto in un paese di montagna. Dopo tanti anni torna alla diga di Malvaglia e si ferma a guardare la superficie dell’acqua, pensando a suo padre, alla sua infanzia, al passato che ancora lo avvolge e gli impedisce di andare avanti. Più in là, nel corso del romanzo, Contini e gli altri personaggi verranno sorpresi da una grande nevicata. Le vie di comunicazione sono bloccate. È la nevicata del decennio, che trasforma completamente il paesaggio. E Contini si trova in montagna, nel cuore del bosco, lontano dal sentiero.

Si spazzolò la neve dal corpo, battendo le mani per scaldarsi. Nel mezzo di una notte d’inverno, quando fa davvero buio, il bosco parla a chi lo sta a sentire. Ogni fruscio, ogni scricchiolio di corteccia e ogni tonfo sulla neve raccontano una storia. Prima di rimettersi in viaggio, Contini rimase in ascolto per qualche secondo. Da qualche parte, quella notte, le volpi andavano silenziose in cerca di cibo. I vecchi alberi gemevano sotto il peso della neve e il ghiaccio stringeva l’acqua dei ruscelli. Contini riprese a camminare. Quello era il suo territorio, era il suo bosco. E lui quella notte avrebbe chiuso i conti con il passato.

Ancora oggi, quando cammino in montagna, mi capita di sentirmi preso nella stessa morsa. Non sono coinvolto in vicende di delitti o riciclaggio di denaro, naturalmente, ma sento il medesimo strazio che invade l’animo di Contini. In qualche modo le montagne sono memoria del mio passato, delle cose scomparse. Nel gesto del camminare, nella libertà dei pensieri e nel mutare repentino delle stagioni cerco di trovare la forza per andare avanti, per vedere, per sentire, per vivere le cose vecchie come fossero nuove. Non è forse così? Se uno guarda con attenzione, le cose non sono sempre nuove?
Venerdì prossimo, all’Atelier Titta Ratti, tornerò per una volta a presentare L’uomo senza casa, anni dopo la prima uscita. Sarà come viaggiare nel passato; tuttavia cercherò di non restare ingabbiato, ma di interrogarmi sull’evoluzione della mia scrittura. Intorno saranno esposte le immagini legate al libro d’artista Commistioni, segni e voci in un territorio di Carla Ferriroli. Nel volume sono presenti le incisioni dell’artista insieme ai testi degli scrittori Remo e Sandro Beretta. Carla Ferriroli ha voluto compiere una ricognizione nel territorio d’origine, provando a esaminarlo con uno sguardo differente, tornando in quei luoghi e in quei paesaggi che quando ci si stava dentro apparivano scontati ma che nella lontananza diventano un frammento importante di memoria. È un percorso innovativo ma nello stesso tempo innestato su una consuetudine. Ciò che io potevo fare, partendo dalla mia attività artistica, era di prendere il mio taccuino e guardare e disegnare, muovendo lo sguardo, fattosi più attento, tra montagne e prati e case, nella quiete di giorni silenziosi: una curiosità girovaga, con la matita, la penna o i pastelli in mano.
Spesso, nelle opere che parlano di montagna, è centrale il tema dell’abitare: il desiderio di tornare a casa, oppure quello di riuscire a comprendere le poprie origini. Ho trovato questa domanda anche nel bel romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne (Einaudi 2016). Il protagonista sale su una vetta e, nel quaderno con le firme degli alpinisti, scopre due righe scritte da suo padre l’anno precedente, poco prima di morire: Tornato quassù dopo tanto tempo. Sarebbe bello restarci tutti insieme, senza vedere più nessuno, senza dover scendere a valle. Un messaggio del genere non può che suscitare domande. Tutti chi?, mi chiesi. E io dov’ero quel giorno? Chissà se aveva già cominciato a sentirsi il cuore debole, o che cos’altro gli era successo per scrivere quelle parole. Senza dover più scendere a valle. Era lo stesso sentimento che gli aveva fatto sognare una casa nel posto più alto, impervio e isolato, dove vivere lontano dal mondo.
Venerdì sera, a Malvaglia, cercherò di capire che cosa significhi sognare una casa nella mia scrittura. Insieme alle opere di Carla Ferriroli ci sarà la musica di Stefano Moccetti. A un certo punto, come succede sempre, le parole non basteranno più, e allora per dare un’occhiata a ciò che si nasconde sotto il lago, non resterà che affidarsi alle note della chitarra…

PS: Il video qui sopra è stato registrato al festival di Montreux il 14 luglio 1986. Al concerto parteciparono Michel Petrucciani (piano), Wayne Shorter (sax tenore) e Jim Hall (chitarra). Beautiful love è un duetto fra Petrucciani e Hall, durante il quale due artisti di generazione e di esperienze diverse si trovano mirabilmente e riescono a costruire, nell’immediatezza di un dialogo, qualcosa di nuovo.

PPS: Le parole di Carla Ferriroli, così come l’incisione riprodotta sopra, sono tratte dal libro d’arte Commistioni, al centro di un’esposizione all’Atélier Titta Ratti di Malvaglia fino al 5 giugno 2017. L’immagine della volpe è una cartolina che mi hanno inviato; non so chi sia l’autore.

PPPS: Del romanzo L’uomo senza casa avevo già parlato qui.

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Migranti

La settimana scorsa ho partecipato a una lettura pubblica, insieme ad altri quattro autori. L’idea era coraggiosa: per una volta, gli scrittori non avrebbero parlato di loro stessi, ma si sarebbero presentati prima di tutto come lettori. Questo dovrebbe essere scontato: ogni autore è la punta di un iceberg, fatto al novanta per cento di lettura (perché possa affiorare il dieci per cento della scrittura). Purtroppo, però, la tentazione di mettere sé stessi davanti alla propria opera è sempre viva, e talvolta le presentazioni di libri risultano un lungo itinerario all’interno di vasti e frastagliati ego.
image2In questo caso è andata bene. Con me c’erano Francesca Matteoni, Marco SimonelliYari Bernasconi e Tommaso Soldini. Le letture giravano intorno al tema della migrazione. La sfida: arrivare all’attualità senza fare del giornalismo, ma a partire da una prospettiva letteraria.
Sono anch’io un migrante. Siamo tutti migranti, questa è la verità. Lo siamo da sempre, inevitabilmente. È la condizione degli esseri umani sulla terra: siamo incalzati dalle nostre paure e dai nostri desideri. C’è chi fugge da paesi sconvolti, chi cerca qualcosa da mangiare, chi insegue l’avventura. E c’è chi resta fermo, ma esplora continenti con il pensiero, con le parole. Perché anche le parole, sepolte dentro di noi, non sanno star ferme: vogliono uscire, viaggiare, conoscere tutto ciò che è diverso.
A parte questa condizione esistenziale, dietro ognuno di noi c’è una migrazione concreta: in una certa epoca qualcuno è partito da casa, ha mutato paesaggio e condizioni di vita. Era nostra madre, o nostro nonno, magari un lontano e primitivo antenato. Ma siatene certi: qualcuno prima o poi si è mosso.
Copia di FullSizeRenderDi recente ho avuto modo di riflettere sul mio bisnonno Benvenuto Fazioli, che partì da Cremona per andare in Svizzera; ne ho parlato qui. Questa memoria migratoria riempie anche la mia scrittura. Mi ricorda che si può appartenere a un luogo che non si conosce; anche perché, a pensarci bene, non esiste un’appartenenza geografica definitiva. Per carattere ho sempre avuto un fondo inestirpabile d’inquietudine – tenuto a bada da un’impassibilità di facciata – che mi porta a usare la letteratura soprattutto come strumento di ricerca.
Per queste ragioni ho deciso di proporre l’inizio del poema La camera da letto, scritto da Attilio Bertolucci nel 1988 (lo trovate pubblicato da Garzanti o nelle Opere edite da Mondadori). Si tratta di un romanzo in versi, nel quale Bertolucci ripercorre la storia della sua famiglia, indagando con minuzia le sfumature della vita quotidiana. Proprio perché gli eventi minimi di ogni giorno abbiano un senso, con le loro luci e le loro ombre, è necessario situarli nel contesto. Perciò Bertolucci, all’inizio del poema, rintraccia l’origine della sua famiglia: uomini e cavalli che emigrano dalla Maremma e percorrono le valli dell’Appennino fino a Casarola. La storia che il poeta aveva sentito raccontare da bambino diventa una narrazione epica. Anche dietro la famiglia, che mira alla stabilità, c’è il mito fondante di una migrazione.
BERTOLUCCI

BERTOLUCCI1

BERTOLUCCI2(Le pagine in pdf, per chi non vedesse bene le immagini: 1, 2 e 3).

È solo una parte del primo capitolo: mi sono fermato al verso che si chiude con le parole cenere propizia, per ragioni di tempo e anche perché mi pareva un’espressione significativa; il resto lo lascio scoprire a voi. Quell’accendersi di sguardi fra il timore e la speranza, quell’ondularsi di prospettive inedite si cela anche nella mia storia, così come quei movimenti fra cronaca e fantasticheria (non a caso fissati nell’immagine ricorrente delle nuvole).
FullSizeRenderBertolucci trova una migrazione nella sua vicenda intima, e questo gli permette di capire meglio pure lo spazio circoscritto, ma universale, della camera da letto. Penso che un lavoro del genere sia necessario anche quando si affronta il tema delle migrazioni attuali, con il loro carico di tragedie. Non entro nello specifico delle questioni politiche. A me compete il lavoro di uno scrittore, e cioè aprire spazi nell’immaginario. Qualunque posizione vogliamo assumere, lo faremo con cognizione di causa se saremo stati capaci di essere migranti, di esserlo compiutamente, grazie al sentire profondo della poesia. Ecco perché pure nell’ambito politico la cultura mi pare necessaria (o almeno utile): quando si parla, o quando si scrive, il fatto stesso di rivolgerci a qualcuno ci pone dentro un orizzonte umano più vasto di ciò che stiamo dicendo.
Anche se non abbiamo fame, anche se non abbiamo freddo, restiamo migranti. E come tali, siamo vicini a tutti i migranti di oggi e di ieri, a quelli che fuggono per disperazione e a quelli che cercano una vita migliore. Lo dice bene Jacques Sternberg in un suo fulminante raccontino intitolato Equilibrio.
Allora, nella notte dei tempi, il primo uomo pensante uscì dal suo antro, contemplò il grandioso paesaggio che lo circondava e credette di sentire affiorare in lui il bisogno confuso, ma lancinante, di qualcos’altro.
Allora, questo mattino di primavera, il direttore di una banca uscì dalla sua villa, contemplò la sua giornata ben riempita e credette di sentire dentro di lui il bisogno confuso, pernicioso, di qualcos’altro.
Ma di cosa? Di cosa?

PS: Per ragioni di spazio, mi sono soffermato soltanto su Bertolucci. Ma vi consiglio di leggervi, o di rileggervi, anche i testi presentati dagli altri autori. Insieme, formano un percorso che nei giorni scorsi mi ha offerto molti spunti di riflessione. Yari Bernasconi ha letto Furore di John Steinbeck (capitolo 21); Francesca Matteoni, Vita del lappone di Johan Turi (Adelphi, pagine 26-29); Marco Simonelli, la poesia Il Mare Adriatico di Alba Donati; Tommaso Soldini, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (Einaudi, pagine 56-60). Mi rendo conto che sarebbe più comodo trovare tutto qui nel blog… ma in un certo senso, uscire a cercare i testi è già un principio di migrazione.

PPS: Il racconto di Sternberg proviene da 188 contes à régler, pubblicato da Gallimard nel 1988.

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Il citofono di Cremona

Immaginate di avere quindici anni, nel milleottocentonovanta. È un giorno di primavera, ma dalla pianura vengono ondate di caldo che annunciano l’estate. Il sole, a picco sopra la stazione, taglia ombre nette, precise, come disegnate da un geometra. Indossate il vostro abito più bello: i calzoni che furono di un vostro fratello maggiore, la giacchetta di fustagno già appartenuta a tre o quattro fratelli e un berretto con la visiera che avete preso a vostro padre. Di certo non si offenderà. E comunque, presto tutto sarà lontano: il sole, la stazione, quel cielo immenso e l’odore dei campi ai bordi della città.
IMG_0089La lontananza. È qualcosa che vi spaventa? O che al contrario vi dà un brivido di piacere? Lasciarsi alle spalle tutto e prendere il treno verso nord. Attraversare le Alpi. Arrivare in una città straniera, grande almeno tre volte Cremona, piena di gente sconosciuta. Ma vi hanno detto che a Zurigo abitano migliaia di italiani: qualcuno con cui parlare lo troverete. Fra poco arriva il treno. Portate la valigia nel fabbricato passeggeri. Intorno a voi, tutto è famigliare: un agrario con il panciotto, un prete che legge il “Messaggere”, una madre che trascina due bambini. Sapete il nome e il cognome del capostazione, avete frequentato i suoi figli. Presto invece, dentro quell’altra stazione su a nord, sarà tutto nuovo.
Dev’essere andata più o meno così quando il mio bisnonno, Benvenuto Fazioli, partì da Cremona e se ne andò in Svizzera. Prima lavorò a Zurigo, poi nel Canton Ticino. Conobbe una donna ticinese e, dopo anni, tornò a Cremona a prendere i documenti necessari per il matrimonio. Appena scese dal treno, sulla piazza della stazione, un uomo si avvicinò, e cominciò a sbirciarlo, poi a osservarlo sempre più da vicino. Infine osò rivolgergli la parola. «Ma tu… ma sei Benvenuto?» Il mio bisnonno fece segno di sì, e l’altro esclamò: «Sono tuo zio!»
FullSizeRender-3 copia 2La lontananza. Quella degli emigranti che partivano per davvero, prima dei telefoni (figuriamoci skype e i social network), quella di un ragazzo amante dell’avventura che balza su un treno e si lascia indietro la sua infanzia. Ma anche la mia lontananza, nel tempo e nello spazio.
Qualche giorno fa sono tornato a Cremona, per la prima volta da quando ero bambino. Ho presentato L’arte del fallimento all’Osteria del Fico, con lo scrittore Marco Ghizzoni e il libraio Mario Feraboli. La serata è stata speciale per l’ottima accoglienza, per le parole e i pensieri di Marco e Mario, per qualche incontro prezioso. Dopo il momento ufficiale, ho avuto l’occasione – fumando la pipa e facendo due chiacchiere davanti a un bicchiere di grappa – di fare un tuffo nella piccola cronaca cremonese, con le sue storie e i suoi personaggi. Il mattino successivo mi è capitato poi di bere un caffè con un lettore fedele che, al contrario di Benvenuto, dalla Svizzera è emigrato a Cremona.
Di solito a questi incontri vado solo, o qualche volta con mia moglie. Stavolta invece ero con mio padre: quando ha saputo che avrei presentato il libro a Cremona, ha voluto accompagnarmi. Un normale viaggio di lavoro si è trasformato così in una ricognizione memoriale: un padre e un figlio sulle tracce del passato, in una sorta di piccola ricerca del tempo perduto in chiave elvetico-lombarda…
FullSizeRender-3Mio padre ha passato lunghi periodi della sua infanzia a Cremona, ma pure io ho qualche ricordo. Si può appartenere a un luogo che non si conosce? Mi vengono in mente i versi di una poesia: anch’io, senza saperlo, sono figlio / di questa terra. Quello che ho sentito è un nodo passeggero che è nostalgia, / ma di seconda mano. Ha contribuito il cielo della Bassa, che al momento del nostro arrivo si è incendiato di rosso dietro una cortina grigia, lasciando intravedere cattedrali di nuvole dorate. Più tardi, la prima esplorazione del centro: con i dettagli avvolti nell’oscurità, le case e i muri avrebbero potuto essere gli stessi di venti o di cinquanta anni prima. Era soltanto un’impressione, certo, ma quella sospensione temporale mi ha aiutato a entrare nel paesaggio.
Abbiamo rivisto i parenti di Cremona. Con l’aiuto dei ricordi e delle fotografie (e di un buon bicchiere di Franciacorta), abbiamo riannodato fili e richiamato alla mente persone scomparse. Scomparse? Forse semplicemente emigrate, anche loro come Benvenuto, forse più vicine di quanto immaginiamo. Presto o tardi, sul piazzale di qualche stazione più che remota, ci capiterà di rivederli. Chissà se li riconosceremo subito?
Copia di FullSizeRender-3Il passato a volte gioca a essere presente. In via dei Mille c’è un cortile che avevo visto da bambino; i parenti che abitavano lì sono morti da anni, ma la casa è sempre uguale. Non solo: avvicinandomi alla porta, ho scoperto che resiste ancora il vecchio citofono, ormai un po’ arrugginito, con il cognome “Fazioli” ben visibile. È assurdo, lo so. Non  c’è nessuna logica. Ma vi confesso che ho avuto la tentazione di suonare. E se mi avesse risposto una voce dal passato? Se il citofono fosse una sorta di macchina del tempo? Se in quel punto – nel banale portone di una cittadina tranquilla dove sembra sempre domenica – si nascondesse una misteriosa via d’accesso alla realtà invisibile?
Ecco, lo sapevo. Anche nei percorsi memoriali, la mia parte romanzesca mi prende sempre la mano. Che ci volete fare? È una deformazione professionale…
(Però quel campanello, quando passo di nuovo da Cremona, proverò a suonarlo. Non si sa mai).

PS: I versi citati sono presi da “Conosci il mare”, di Yari Bernasconi. L’autore parla di un ritorno, con il mare e il sale che corrode, / che scava nelle piccole esistenze. La lirica si trova nella raccolta Nuovi giorni di polvere (Casagrande 2015). Potete leggere qui il testo completo.

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