Tutto accade a me

Dov’è casa mia? Domanda insidiosa. Nei miei giochi da bambino facevo costruire a vari personaggi elaborate abitazioni di mattoncini. Poi, quando la situazione era stabile, di colpo distruggevo tutto per poter ricominciare dal desiderio di una casa.
Oggi nel mondo ci sono ottanta milioni di profughi, cui si aggiungono almeno centosessanta milioni di persone senza dimora. Ho citato gli ultimi dati disponibili, ma le cifre sono di certo più alte; senza contare chi abita in un tugurio. È un privilegio avere delle pareti, un tetto sopra la testa. Se dispongo di un edificio nel quale vivere non è certo merito mio; tutto ciò che abbiamo – lavoro, denaro, relazioni, oggetti – non è mai compiutamente nostro. Credo che la mia inquietudine a proposito del concetto di “casa” sia legata a questo, ma anche alla scrittura, alla necessità di partire ogni volta dal vuoto per abitarlo con una storia.

Di recente la città di Lugano mi ha chiesto una citazione per un progetto contro l’ansia da Covid-19 (trovate qui i dettagli). Ho scelto una frase dal libro Il commissario e la badante (Guanda).

«Casa non è famiglia, non basta la famiglia, casa non è patria, e neppure sicurezza o lavoro o figli da crescere. È un luogo ideale a cui appartenere; un territorio vasto, dove ci si può perdere, ma nel quale riconoscere i punti di riferimento dell’amicizia, della condivisione, della tenerezza.»

Anche dopo aver trovato una casa, bisogna continuare a cercarla. I protagonisti del libro vivono questa tensione verso un modo di abitare più compiuto, seguendo un filo conduttore che unisce i vari racconti. Un vecchio ex commissario di polizia, non più del tutto autosufficiente, assume una badante tunisina. Fra i due personaggi c’è una spaccatura: lui anziano e lei giovane; lui scettico e lei musulmana; lui benestante, proprietario di un appartamento e lei migrante, strappata alle sue radici. Il riconoscimento dell’alterità è un gesto difficile, perché l’istinto suggerisce di eliminare la differenza. Ci sono molteplici reazioni: ignorare l’altro, limitarsi a tollerarlo (ma senza volerlo conoscere), fingere che non sia diverso (rinunciando al concetto stesso d’identità), respingerlo o aggredirlo.
Invece la differenza è vitale. È proprio grazie a essa che un rapporto diventa dinamico. Così succede ai miei personaggi: i punti di vista dell’uno e dell’altra, per forza limitati, si arricchiscono a vicenda. E io? Quando trovai i personaggi, avevo in mente due individui distanti fra di loro, senza riflettere sul fatto che entrambi erano distanti anche da me. All’inizio non fu semplice: la tentazione, pure quando si scrive, è sempre quella di rifugiarsi in una casa conosciuta. Poi però, racconto dopo racconto, mi sono affidato agli occhi di Zaynab Ammar che incrociavano quelli di Giorgio Robbiani.
Questo incontro ha mutato anche il mio modo di narrare. Proprio per questo nelle storie affiorano stili diversi (dall’umorismo alla tensione drammatica) e generi diversi (dal poliziesco al racconto minimalista). Anche i luoghi, dalla Svizzera italiana a Milano, da Zurigo alla Toscana, appartengono alla mia vicenda personale, rinnovata dalle vite di Zaynab e Robbiani. Le loro vicissitudini, le loro sofferenze e le loro gioie diventavano le mie. In un certo senso tutto è accaduto a me: la perdita della moglie dopo anni di matrimonio, lo sbarco in Europa, la stanchezza della vecchiaia, il prendersi cura di un estraneo, la paura, la curiosità, l’accettazione della propria fragilità. Tutto continua ad accadere: anche se ho concluso la serie di racconti, Zaynab e Robbiani continuano a vivere in chi legge il libro… e di tanto in tanto tornano nei miei pensieri.
Everything Happens to Me (“tutto accade a me”) è il titolo di una canzone del 1940, scritta da Tom Adair (parole) e Matt Dennis (musica). Diventata uno standard del jazz, venne interpretata da numerosi musicisti e cantanti, da Bill Evans a Sonny Rollins, da Ella Fitzgerald a Billie Holiday, da Thelonious Monk a Gerry Mulligan, Stan Getz, Joe Pass e altri ancora. Di recente ho ascoltato la versione del saxofonista Tina Brooks, che mi avvince in maniera particolare.

Brooks indugia nella melodia, con un suono caldo e insieme un po’ ruvido, accompagnato da grandi musicisti: Lee Morgan alla tromba, Sonny Clark al piano, Doug Watkins al basso e Art Blakey alla batteria. Le frasi di Brooks mostrano un musicista consapevole, capace di pensiero logico e di arguzia (per esempio nella cadenza finale). Ciò che mi colpisce è pensare che il brano, inciso nel 1958 per l’album Minor Mood (Blue Note), uscì soltanto nel 1980 in Giappone, sei anni dopo la morte di Brooks.
È malinconica la vicenda di Harold Floyd “Tina” Brooks (Fayetteville, 7 giugno 1932 – New York, 13 agosto 1974). Amato e stimato da molti altri musicisti, non ebbe mai la piena fiducia della sua casa discografica. Nonostante la sua indubbia bravura, venne tenuto all’ombra: suonò nei dischi degli altri, ma registrò pochissimo a suo nome (e ancora meno venne pubblicato). Questo accadde forse a causa del suo carattere schivo, della sua incapacità di imporsi; era sicuro di sé solo quando suonava. Fin da bambino non si sentiva a suo agio in mezzo agli altri. Quando la sua famiglia si trasferì a New York, nel 1944, il dodicenne Tina non riuscì a legare con nessuno, venne isolato e maltrattato dai suoi coetanei, tanto che lo rimandarono a Fayetteville, in una famiglia di parenti, fino al 1949. Registrò per l’ultima volta in studio nel 1961, poi divenne sempre più dipendente dall’eroina. Morì di un’insufficienza renale nel 1974, ormai ridotto a mendicare per vivere. Ecco, per Tina Brooks, per chi viene lasciato indietro, per chi si ritrova sulla strada, per chi sente il taglio della solitudine, della disperazione, per tutti loro – anche se magari non serve a niente – cerco di non sentirmi mai troppo a casa. Soprattutto quando scrivo.

PS: Il primo video di questo articolo è il “booktrailer” realizzato da Alessandro Tomarchio. Trovate qui altre informazioni su Il commissario e la badante e qui le date delle prossime presentazioni.

PPS: Di recente ho traslocato. A mezza via mi sono trovato in bilico tra due case vuote, o semivuote; le fotografie che illustrano l’articolo sono state scattate durante questa esperienza di sospensione esistenziale.

PPPS: I dati sui profughi provengono dall’ACNUR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. I dati sui senza casa sono tratti da uno studio della Yale University.

 

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Pourquoi ici?

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Tutto si fa distante, certe volte. Si comincia a dubitare di un dettaglio e all’improvviso manca il terreno sotto i piedi. Non è necessario che ci siano cause scatenanti evidenti o spettacolari: basta un secondo d’inspiegabile vuoto. Una minuscola goccia di buio.
È quello che mi succede oggi a Paradeplatz. Arriviamo a piedi dalla stazione, come al solito. È pomeriggio, l’una e una manciata di minuti, e ci accoglie un’ampia luce bianca. Accenno una battuta ad Andrea a proposito di un signore spaparacchiato su una panchina. Sembra il sosia perfetto di Bukowski. Sorrido, ma non sono a mio agio.
Quando ci sediamo e prendiamo i taccuini, sento sorgere un certo avvilimento. Restiamo lunghi minuti in silenzio e io non so più per quale motivo siamo lì, in mezzo a gente che sa con esattezza cosa sta facendo, e se non lo sa può vantarsi di non saperlo. Io sono solo confuso e insicuro. Vedo Andrea con la coda dell’occhio e ho l’impressione che anche lui, a dispetto dello sguardo che si posa sulla piazza, sia in realtà altrove. Evito di parlargliene. Rileggo la poesia che abbiamo portato con noi:

Io e il mio io
nello stesso scontro.
Gli dico:
non cedere allo sconforto
no, risponde,
speranza è cavalli bradi
mai calmi
mai stanchi
e nitriscono sempre.

È di un autore siriano, Faraj Bayrakdar. È stato in prigione, per anni e anni non ha potuto scrivere e si è così costruito una biblioteca personale nella memoria. Certo, mi dico ingiustamente, tutto così calzante, così perfetto! Versi che senza mezzi termini ci suggeriscono di non lasciarci addomesticare, di non addormentarci, di non stancarci di fare sentire la nostra voce. Bene, fantastico, continuo a pensare, ma quale voce? Il cavallo nitrisce per natura, è la sua unica voce, non può far altro. Ma noi? Noi possiamo scegliere e questo complica le cose: come dire qualcosa? E poi perché? Sono a Paradeplatz ma potrei essere in qualsiasi altro luogo, perché non trovo alcuno spunto valido e costruttivo. Sono stanco. Cresce il timore che la risposta da dare sia la più ovvia, e cioè che la nostra presenza a Paradeplatz è inutile e abbastanza ridicola, anche se nessuno ce lo dirà mai con queste parole.
Allora mi alzo. Mi viene in mente che stamattina, curiosamente, al posto delle lenti a contatto ho optato per gli occhiali. Mi dirigo in mezzo alla piazza e li tolgo. Oscilla tutto: non colgo i visi dei passanti, lo stile dei vestiti, i dettagli verso cui rivolgo in genere la mia attenzione. Eppure mi accorgo presto che non ci sono soltanto presenze vaghe, ma anche movimenti sinuosi, per lo più illeggibili ma con una loro armonia. Riconosco il blu dei tram, ma chi scende e chi sale è una sorprendente scia colorata che si sfalda, si ricompone, si perde.
In quel mondo incompiuto e solo suggerito, fuori fuoco, mi sento subito meglio. Persino meno solo.

[YB]

*

Eccoci, seduti uno di fianco all’altro. Entrambi con gli occhiali, entrambi con gli occhi cerchiati di sonno. Per ragioni diverse, la notte scorsa abbiamo dormito poco (fra tutti e due, meno di dieci ore). Dormire in Paradeplatz? Per un attimo il pensiero mi sfiora, poi capisco che qui è tutto troppo chiaro, troppo abbagliante. Mi sembra che ci sia più sole del consueto forse per via di questo vento secco e caldo, che spazza il cielo e porta con sé un vago odore di bruciato.
Saranno i freni dei tram, penso, e apro il taccuino. Cerco una pagina nuova. Scrivo: odore freni tram. Ma il candore della pagina mi ferisce gli occhi. Perché tutto questo chiarore? Perché tutti vestono di bianco? Faccio una verifica, dandomi un tempo di trenta secondi: intorno a me conto nove camicie bianche. Mentre cerco di arrivare a dieci, vengo distratto da un’apparizione. Di fronte a noi, maestosamente incede una giovane madre con una carrozzina: roseo il vestito così come le scarpe, lieve il sorriso, sereno lo sguardo. Dopo qualche secondo svanisce nel sole. Nel frattempo, di fianco a Yari si è seduta una coppia: lui e lei, abbracciati stretti, sospesi fra il desiderio di baciarsi perdutamente (un minuto) e fra quello di guardare un video sul cellulare (cinque minuti).
Leggo la poesia di Faraj Bayrakdar. Trovo la parola أمل [ʾamal], “speranza”, e la parola صهيل [ṣahil], “nitrito”: i segni scritti suscitano un’immagine – cavalli bradi, spazio vasto e senza confini – che può rendere prezioso ogni fatto marginale, ogni minuto passato a sbadigliare in Paradeplatz. Certo: la speranza. Il problema è che a volte, nel momento stesso in cui la nomino, la mia povera speranza rientra in sé stessa, perde la vitalità dei cavalli e dei nitriti, resta una parola. Solo un’altra parola da mettere nel taccuino: speranza. Come una farfalla infilzata.
Quale speranza trovo, in questo giorno di fine agosto, per me, per la mia vita e il mio lavoro? E per Yari? E per tutti i passanti con le loro camicie bianche, i loro baci, i loro passeggini? C’è una forma di speranza che possa placare la lotta che ognuno di noi, nascostamente, combatte contro sé stesso? In un’altra lirica, Bayrakdar scrive: «Unitevi, / uccelli delle domande. / Nitrite, / limiti del possibile. / Perché un barlume / nella disperazione / basta / a iniziare l’azzurro / a innescare le risposte.» Di nuovo, al confine di ciò che sembra inevitabile, risuona un nitrito. Ma come negoziare un po’ di azzurro in un giovedì pomeriggio di agosto, con questo vento caldo, la stanchezza, la sfiducia verso ciò che stiamo facendo?
Sulle fiancate dei tram appaiono pubblicità di centri wellness, dolciumi, cibo per animali domestici. Torna la mamma rosavestita, quando ormai pensavo fosse da tempo volata via nel sole. Invece, nel momento in cui prova a partire davvero, qualcosa si frappone fra lei e il suo destino: la porta del tram sta per chiudersi, a carrozzina si piega… immediatamente, e senza che nessuno dischiuda le labbra per dire una parola, due, tre, quattro persone intervengono e aiutano la rosea madre a salire sul tram.

Passa una macchina pulitrice. Si ferma, ne scende un uomo con una divisa arancione. Afferra una scopa di saggina. Poi spazza la sporcizia da sotto la pensilina, spingendola verso l’esterno. Le persone sedute ad aspettare il tram alzano entrambi i piedi, perché l’uomo possa allungare la scopa. Infine, l’uomo si mette al volante della macchina e risucchia ogni cosa: mozziconi di sigarette, lattine vuote, cartacce. Sul fianco della macchina c’è una scritta: Damit es in der Stadt so schön ist wie zuhause. Mi colpisce l’idea che stare qui sia come stare a casa.
Fra i vari libri che Yari e io abbiamo con noi, c’è anche un racconto per bambini tradotto in francese dal norvegese. S’intitola Pourquoi ici?. Nell’ultima pagina, il giovane protagonista sviluppa una riflessione: «Tutto avrebbe potuto essere totalmente diverso se fossi stato altrove. Perché sono nato io, e non qualcun altro? E perché sono precisamente qui? Ma forse io sono la mia casa. In questo caso, non importa dove mi trovi: dappertutto sono a casa mia.» Magari è questo il senso del nostro tornare qui mese dopo mese: con l’esercizio della scrittura tentiamo di abitare una piazza e di trovare una casa.

[AF]

*

Quando arrivo a Berna, piovono risposte illuminanti. Prima sulla vetrina di un negozio: Zuhause ist, wo dein Bett steht. Questa è per te, Andrea. Poi su un quotidiano gratuito, aperto a caso, un articolo a mezza pagina: «Ich esse manchmal WC-Papier». Questa è per tutti quelli che non sanno dove stiamo andando.

[YB]

*

Quando arrivo a Bellinzona, sto quasi dormendo. In realtà, non mi è mai riuscito facile assopirmi durante i viaggi in treno. Stavolta, nel momento in cui prendo sonno, mi rendo conto di essere giunto a destinazione. Un po’ intontito, mi avvio lungo il corridoio. Pourquoi ici?

[AF]

PS: Le poesie di Bayrakdar sono tratte da Specchi dell’assenza (Interlinea  2017; traduzione e cura di Elena Chiti). Hvorfor er jet her?, scritto nel 2014 da Constance Ørbeck-Nilssen e illustrato da Akin Düzakin, è stato tradotto in francese nel 2017 da Aude Pasquier, con il titolo Pourquoi ici?, per le edizioni La Joie de lire.

PPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno e luglio.

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