Lady Sweet

A volte mi capita di trovarmi da qualche parte in macchina, di notte. Di solito ho appena parlato con qualcuno, magari ho visto degli amici, ho cenato, ho letto brani delle mie storie, ho discusso di letteratura, della vita, o semplicemente di quelle cose stupide che vengono in mente la sera tardi. Al momento in cui chiudo la portiera e mi avvio per tornare a casa, c’è un silenzio nel quale riecheggiano pensieri buoni o pensieri molesti. Se sono buoni, lascio che il silenzio li faccia crescere. Se sono molesti, cerco di combatterli con l’aiuto di Dexter Gordon.
IMG_0066Il suo sax tenore, con un suono che sembra risalire dal profondo della terra, è l’ideale per accompagnare i viaggi a notte fonda. C’è una vibrazione antica come i vulcani, e nello stesso tempo c’è una limpidezza nitida come un cielo primaverile, dove spiccano i colori, la forma delle note. Tutto questo insieme a una sapienza ritmica così naturale, così ovvia che sembra lo sguardo di un amico in mezzo alla folla, una strizzata d’occhio, il suono di un passo conosciuto che si avvicina alla porta. Di solito ascolto l’album Go, oppure Our man in Paris. Lo strazio dolce delle ballate è compensato dai brani veloci, nei quali Gordon si diverte a scolpire ogni nota, a sputarla fuori rotonda e perfetta, concedendosi ogni tanto qualche citazione ironica.
IMG_9994Protagonista della scena musicale americana negli anni Quaranta, il saxofonista conobbe in seguito anni dolorosi, nei quali l’alcol e le droghe presero il sopravvento. Alto un metro e novantasei, dinoccolato, con gli occhi gentili e un sorriso affascinante, Long Tall Dexter si perse nel buio degli ospedali, delle prigioni, in una rovina che pareva irreversibile. Invece trovò il coraggio di tirarsene fuori: si trasferì in Europa, a Parigi e a Copenaghen, e seppe inventarsi una seconda carriera. Addirittura, nel 1986, fu scelto dal regista francese Bertrand Tavernier per interpretare ’Round midnight, che è forse il miglior film sul jazz che sia mai stato girato fino a oggi.

Non è il classico biopic, ma il tentativo di rappresentare un’atmosfera, una visione del mondo. Dexter Gordon interpreta il personaggio di Dale Turner, un grande musicista alcolizzato; è una figura in parte ispirata al saxofonista Lester Young, in parte al pianista Bud Powell, in parte allo stesso Gordon. Il film è ambientato alla fine degli anni Cinquanta e narra la storia dell’amicizia fra Turner e Francis Borier, un grafico appassionato di jazz. Non avendo i soldi per il biglietto, Francis si rannicchia sul marciapiede, accanto a una finestra del Blue Note di Parigi. Sera dopo sera, ascolta con rapimento la musica di Turner, che si esibisce dal vivo. Con il tempo fra i due comincia una lunga, intensa amicizia.
UnknownCome tutte le grandi amicizie, anche questa è inaspettata e diffonde intorno a sé un fermento di vita, di scoperte. Francis racconta a Turner come la sua musica lo abbia cambiato e lo abbia portato a interessarsi di arte, di letteratura, lo abbia reso più sensibile. Turner continua a suonare, ma non riesce a stare lontano dall’alcol. Di continuo Francis lo va a cercare negli ospedali e nei commissariati, lo trascina fino al suo appartamento, lo mette a letto.
FullSizeRender-5Come spiega allo stesso Francis un conoscente di Turner: Quando devi esplorare ogni sera, ti suscitano dolore anche le cose belle che trovi. Il film rappresenta bene questo tormento. Gordon infatti non è un attore, così come tutti i musicisti che si vedono nel film. I concerti sono ripresi dal vivo: c’è una tensione reale che si percepisce nei gesti di Herbie Hancock al piano, John McLaughlin alla chitarra, Billy Higgins o Tony Williams alla batteria. Tavernier voleva proprio mostrare la violenza della creazione, il sudore dello sforzo, gli sguardi di due musicisti che si domandano a vicenda quali note suoneranno. Ci sono momenti che solo la diretta poteva offrire: quando Billy Higgins prende le spazzole, poi vede Dexter che sta suonando una variazione e allora cambia e prende le bacchette… non potevo fare tutto questo in playback. È come se in un western gli attori non fossero capaci di cavalcare.

Turner è consapevole del suo talento, ma anche del logorio che questo comporta. Non puoi uscire e prendere uno stile così, cogliendolo da un albero. L’albero è dentro di te, e cresce con naturalezza. Il saxofonista sconta con la sofferenza la crescita dell’albero interiore, staccandosi sempre di più dalla realtà e riducendosi in uno stato pietoso. Finché un mattino, dopo aver visto Francis piangere per lui, Turner promette di cambiare. Le presenze oscure nell’anima del musicista non se ne vanno del tutto, ma in qualche modo allentano la presa. Turner riesce a suonare, a incidere, a comporre musica. La storia è ispirata alla realtà per tanti piccoli dettagli. Il personaggio di Francis Borier, per esempio, ricorda Francis Paudras, lo scrittore amico di Bud Powell (che aveva suonato con Dexter Gordon proprio a Parigi).
Unknown-2Grazie anche alla splendida colonna sonora di Herbie Hancock, Tavernier riesce a mostrare con delicatezza questi paesaggi interiori. Restano nella memoria la voce roca e cantilenante di Gordon, la sua ironia, la dedizione di Francis, il rapporto di entrambi con le loro figlie, i colori azzurri e grigi dei locali notturni parigini, cui fanno da contrasto la luce forte delle poche scene girate all’aperto. Ogni tanto alle immagini del film si alternano quelle in bianco e nero catturate da Francis con una cinepresa; in questo modo si fondono lo sguardo onnisciente del regista con quello intimo e affettivo dell’amico.
imagesIn una delle poche scene in esterno giorno, i due protagonisti sono seduti su una spiaggia. Turner riflette a mezza voce: È strano che il mondo si trovi all’interno del nulla. Insomma, tu hai il cuore, l’anima, dentro di te; i bambini stanno dentro le loro mamme; i pesci stanno dentro il mare. E il mondo? Il mondo si trova dentro un niente. Turner tace e guarda il mare, ma queste domande tornano con forza nella voce possente del suo sax, che lui chiama Lady Sweet.

’Round Midnight ha molti aspetti malinconici, ma la forza, la vitalità della musica afferma una speranza. È memorabile, per esempio, la scena in cui Turner ritrova la cantante Darcey Leigh (interpretata da una sfavillante Lonette McKee). Fra i due c’è una tenera e tenace amicizia, che ricorda quella fra Lester Young e Billie Holiday. L’intensità del loro legame si esprime nella complicità con cui interpretano il brano di Gershwin How long has this been going on? Ci sono rapporti umani che le parole non arrivano a definire; ma per fortuna – come dice lo stesso Dale Turner – non tutto ha bisogno di parole.

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PS: Dexter Gordon nacque a Los Angeles il 27 febbraio 1923 e morì a Philadelphia il 25 aprile 1990. Ho citato all’inizio gli album Go (Blue Note 1962) e Our man in Paris (Blue Note 1963). Esistono pure due dischi con la colonna sonora del film, entrambi molto buoni: ’Round midnight (Columbia 1986) e The other side of ’Round midnight (Blue Note 1986). Le parole di Bertrand Tavernier provengono da un’intervista con Léo Bonneville, pubblicata sul numero 127 della rivista Séquences nel 1986. La canzone ’Round midnight, venne composta dal pianista Thelonius Monk e dal trombettista Cootie Williams all’inizio degli anni Quaranta, con parole di Bernie Hanighen (è uno dei brani più noti e più suonati nel mondo del jazz).
La fotografia che appare sopra questo Post Scriptum è di Giuseppe Pino, che la scattò a Milano nel 1971; è tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). Qui sotto, invece, vedete un ritratto di Gordon nel 1948 al Royal Roost di New York; è opera di Herman Leonard ed è una delle foto più celebri del jazz. Le altre immagini di questo articolo, quando non siano le copertine dei dischi o la locandina, sono dei fotogrammi tratti dal film.
Una versione di questo articolo si trova sulla rivista Cinemany.

 

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Winter moon

Qualche giorno fa è venuta un’amica a cena e ha portato un po’ di alghe in una bottiglia di plastica. Aveva con sé anche roba più commestibile – cioccolatini, vino bianco – ma io mi sono sentito subito attratto dalle alghe. Non erano da mangiare, non avevano proprietà curative e in generale non sembravano un granché: la bottiglia di PET lasciava intravedere filamenti verdi, giallastri o bruni. Ma nella loro banalità, emanavano un richiamo misterioso. Mentre ero intento nella contemplazione, mi hanno spiegato che quella minuscola cosa verde era una delle specie viventi più antiche del nostro pianeta.
image1-2 copia 4Un po’ come le felci, ho detto io. O come le lucertole, ha detto qualcun altro. No, no – ha spiegato la persona che aveva portato l’alga – questa è molto più vecchia. Ha circa 400 milioni di anni. Mi sono girato verso la mia amica. Sei sicura? Ha annuito. Era sicura, anno più anno meno. Allora ho guardato di nuovo la bottiglia. Mi sentivo quasi in soggezione. Si chiama Isoetes velata, ha aggiunto l’amica. Varietà sicula. L’alga, nel frattempo, se ne stava assorta nei suoi pensieri.
Abbiamo bevuto un aperitivo, abbiamo parlato, abbiamo mangiato una pizza. E intanto la piccola alga, matriarca di noi esseri viventi, approdata dal mare sconfinato dell’era paleozoica fino a una bottiglietta di PET riciclabile, se ne stava placida nell’acqua. Proprio come ha fatto per milioni di anni, mentre intorno a lei si frantumavano continenti, si sprigionavano vapori, ruotavano senza fine vaste correnti oceaniche, nascevano spugne, scorpioni, vermi, animali con cinque occhi, coralli e muschi e meduse e lunghi tenaci millepiedi e pesci con le pinne che annaspavano sul fango delle rive. La piccola alga era già vecchia nel periodo Triassico, aveva già visto tutto quando il mondo si stupiva per l’apparizione dei protorotirididi nel Carbonifero. Figuriamoci poi il Giurassico e il Cretaceo, figuriamoci le angiosperme con i loro fiori, ah, la bellezza dei fiori. Il gusto della pizza. I primi primati. Gli australopitechi. La bicicletta. Quel brutto ceffo dell’Homo abilis. L’arco e le frecce. Il tubo di scappamento, le sciarpe, i romanzi a puntate. Il coltellino svizzero. Internet, sì, nella seconda epoca del Quaternario è comparso anche internet. Ma prima ancora, è saltato fuori il polietilene tereftalato. E nel 1973 Nathaniel Wyeth ha inventato le bottiglie di PET.
image1-2A questo punto le vie della Isoetes e della bottiglia si sono incrociate, come succede in tutte le storie. E qualche ora dopo sono arrivato anch’io. Naturalmente, la Isoetes è una remota discendente delle sue antenate che popolavano i mari primordiali, ma è riuscita a invecchiare senza troppi cambiamenti. Ecco quindi un modo poco dispendioso per viaggiare nel tempo: mettersi davanti alla Isoetes velata (varietà sicula), fissare lo sguardo, cancellare tutto il resto – la pizza, la casa, la luce elettrica – e immaginare che quello stesso piccolo filamento avremmo potuto incrociarlo 400 milioni di anni fa, così come lo stiamo vedendo ora.
IMG_9781Lo studioso Renato Giovannoli precisa che l’ammissione della possibilità di un viaggio a ritroso nel tempo, nella scienza o nella fantascienza, avrebbe conseguenze devastanti sul piano cosmologico, e per lo stesso “tessuto logico” della realtà. Da sempre gli scienziati e gli scrittori si trovano alle prese con paradossi insormontabili; Giovannoli li analizza meticolosamente fino a intravedere una soluzione nella pluralità dei mondi. Ma si può tentare anche la strada dell’empatia e dell’immedesimazione. Il viaggio nel tempo non è reale? Certo, così parrebbe, ma chi dice che per qualche secondo, per un’infinitesima frazione di secondo, i miei occhi non abbiano scrutato davvero nelle profondità del Paleozoico?
70a3e084f90e85938540b60de2f51840Non c’è nemmeno bisogno di un’alga preistorica, basta una notte serena. Di recente mi è capitato di guidare la notte e di avvistare, sospesa sulle montagne, una falce di luna immensa, limpida e luminosa, come se fosse a pochi metri dalla terra. In questi casi, a volte, parcheggio la macchina e muovo qualche passo fuori dal ciglio della strada, inoltrandomi nei campi o nei boschi. Quando non vedo più tracce della civiltà contemporanea, mi fermo. Intorno a me ci sono arbusti, un masso di pietra, i rami spogli di un faggio. Allora, alzando gli occhi al cielo, guardo la luna.
In questo momento, che differenza c’è tra me e un mio antenato del XIX secolo? Che cosa mi distingue da un uomo del medioevo? La situazione – immobile, ai margini di un bosco, la luna sopra la testa – mi rende contemporaneo di Giulio Cesare, di Napoleone Bonaparte, di un contadino cinese dell’anno mille.
La luna ci accompagna fin dall’inizio. Passano le epoche, cambiano i popoli e la tecnologia, ma il gesto di alzare gli occhi ci lega inestricabilmente ai nostri progenitori. Siamo certi che davvero, per un secondo, non si crei un cortocircuito, una sovrapposizione di universi, siamo certi che per un istante io non possa trovarmi davvero in un’altra epoca? E se tornassi verso la strada e incontrassi solo una mulattiera? E se nessuno sapesse più niente delle automobili e dei computer?

La fantasticheria dura per un minuto, poi mi rendo conto che sono sempre io, soltanto io, Andrea Fazioli, con tutta la mia inevitabile andreafaziolitudine, e che questa è ineluttabilmente una sera di marzo del 2017. Aveva ragione Eraclito l’Oscuro, quando nel 500 avanti Cristo ammoniva: Non scenderai due volte nello stesso fiume. La nostra umanità ci vincola al tempo, siamo inchiodati alla nostra identità, al qui e ora di questa epoca, e sentiamo il tempo che lentamente muta e consuma tutto ciò che conosciamo, compresi noi stessi. Nemmeno la luna è più la stessa luna che guardavano Giulio Cesare o il contadino cinese dell’anno mille. Così dice Borges in una breve lirica: C’è tanta solitudine in quell’oro. / La luna delle notti non è la luna / che vide il primo Adamo. I lunghi secoli / della veglia umana l’hanno colmata / di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio. Lassù non ci sono mondi fantastici, ampolle di senno perduto o conigli giganti, ma ci siamo noi, le nostre sofferenze, le speranze che nei millenni si sono accese in ogni singolo uomo e in ogni singola donna che almeno per un istante, nel corso di una vita, abbia alzato gli occhi verso la luna. Guardiamola. È il nostro specchio.
image1-2 copia 3Nonostante le catene del qui e ora, è forte nell’uomo la tentazione di correre più in fretta del tempo, o di fermarlo per poterlo assaporare. Perciò sono nate mille storie di fantascienza, mille sogni paradossali. È così fin dal Big Bang, quando l’universo è sbucato dal nulla ed è subito caduto nel tempo, è così fin dall’attimo del nostro concepimento, che è come un big bang personale. Tuttavia, possiamo incontrare una distorsione del tempo quando meno ce l’aspettiamo. A me è successo tre volte in questi giorni: prima con l’alga preistorica, poi con la luna invernale sulle montagne e infine – insospettabilmente – facendo la spesa. Infatti anche alla luce artificiale di un grande magazzino potete vivere un’esperienza di crono-distorsione. Basta che all’improvviso, nel settore dei dolci, vi troviate davanti una fila di panettoni, un mucchio di frittelle di Carnevale e un coniglio di cioccolato che vi scruta con i suoi occhietti folli. Allora di sicuro vi fermerete. Natale, Carnevale, Pasqua. Con un soprassalto interiore, vi chiederete: ma che giorno è? Basta poco. Pochissimo. E state già viaggiando nel tempo.

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PS: Il brano Winter moon venne inciso dal saxofonista Art Pepper nel 1980 per l’album omonimo, pubblicato dalla Galaxy nel 1981. Pepper, nato nel 1925, sarebbe morto l’anno successivo. Aveva sempre desiderato suonare con un’orchestra di archi, e fu lieto di poterlo fare in un periodo tranquillo della sua carriera: negli ultimi anni, pur segnato dalle ferite della droga, del carcere e dell’internamento terapeutico, era tornato a lavorare con una certa serenità. Il suo suono è sempre elegante, con un rintocco doloroso. Le note lunghe dei violini tratteggiano l’oscurità del cielo invernale; le vibrazioni del basso costruiscono la struttura su cui, come un fantasma lirico, si arrampica il contralto di Pepper, su, su, fino a disegnare il contorno della luna. Insieme a lui Stanley Cowell (piano), Howard Roberts (chitarra), Cecil McBee (contrabbasso), Carl Burnett (batteria) e gli archi diretti da Bill Holman, che è pure l’arrangiatore del brano, composto da Hoagy Carmichael negli anni Cinquanta.

PPS: A chi ama la fantascienza consiglio caldamente la lettura dell’opera di Renato Giovannoli, intitolata La scienza della fantascienza e pubblicata in edizione riveduta e aggiornata da Bompiani nel 2015 (la prima edizione risale al 1991). Ho citato anche il frammento 91a di Eraclito (lo trovate in I frammenti, Marcos y Marcos 1989) e la lirica La luna di Jorge Luis Borges, tratta da La moneda de hierro, una raccolta del 1976 (in Tutte le opere, Mondadori 1985). Ecco il testo originale: Hay tanta soledad en ese oro. / La luna de las noches no es la luna / que vio el primer Adam. Los largos siglos / de la vigilia humana la han colmado / de antiguo llanto. Mirala. Es tu espejo.
Il dipinto è di René Magritte: Le maître d’école (1954).

PPPS: Grazie ad Alice per l’Isoetes velata (varietà sicula).

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Coriandoli nella birra

Esco di casa alle quattro del mattino, faccio qualche passo e incontro una chiazza di vomito sul marciapiede. Per qualche secondo rimango fermo a guardarla. Mi sembra quasi una creatura viva, che possa contraccambiare il mio sguardo. È una sostanza semipastosa di colore bruno-verdastro, nella quale galleggiano brandelli più scuri e anche qualcosa di arancione (forse dei resti di carote?). Il vomito possiede la capacità di suscitare empatia: per un attimo anch’io devo soffocare un conato, quando mi arriva un effluvio di bile, succhi gastrici e birra, misto a un vago odore di dignità perduta. È un riflesso potente: perfino mentre digito queste parole sulla tastiera del computer, devo tenere a bada i miei recettori esterni, perché non portino l’ordine di rilascio ai neuroni nel tronco dell’encefalo.

Be’, per il momento siamo al secondo paragrafo e non sto vomitando. Nemmeno voi, spero. Dopo aver cautamente aggirato la chiazza, mi dirigo verso il centro della città, che da lontano si annuncia con un boato. È la notte tra sabato e domenica. Bellinzona è blindata e sorvegliata da squadre di agenti della sicurezza: le notti del carnevale Rabadan sono lunghe e affollate. In passato mi è capitato di viverle nell’ordine giusto, cominciando cioè dalla sera e arrivando fino alle ore piccole; quest’anno mi sono detto: perché non fare due passi fra le quattro e le cinque del mattino, per afferrare l’atmosfera del Rabadan con mente fresca? Magari potrei finalmente comprendere quella scintilla, quell’accensione segreta di allegria che ancora non sono riuscito a cogliere, pur avendo partecipato a decine di carnevali.
IMG_9723Prima di avvicinarmi al recinto che chiude la città, incrocio una coppia con il costume abbinato: Coniglio e Coniglia, con le orecchie lunghe, un batuffolo di coda e i baffi dipinti sulle guance. Stanno litigando, mentre camminano ai due lati opposti della strada. Provo un certo imbarazzo mentre passo in mezzo. Coniglia sta accusando Coniglio di essere troppo geloso e nessuno dei due risponde al mio cenno di saluto. Qualche minuto dopo incontro una ragazza esile e bionda, con un costume scintillante di lustrini. Se ne sta accasciata addosso a un muretto e ha gli occhi un po’ vacui, perciò oso chiederle: Tutto bene? Lei mi guarda e risponde stancamente: Vaffanculo.
IMG_9721Proseguo verso il centro. Vaffanculo, penso, che bell’inizio. Ecco cosa succede a parlare con le ragazze esili e bionde intorno alle quattro del mattino. Vaffanculo. Niente da dire, me lo merito. Prima di partire mi sono documentato leggendo Zygmunt Bauman, che usa addirittura la parola fratellanza. Dopo aver sottolineato come il carnevale tenga a bada le ansie dell’individualità con una gioiosa marea di identicità indifferenziata, Bauman spiega infatti che la funzione (e il potere di seduzione) del carnevale liquido-moderno risiede nella rianimazione momentanea di una fratellanza sprofondata nel coma. Carnevali di questo tipo sono affini a “danze della pioggia” e sedute spiritiche, in cui la gente si tiene per mano ed evoca il fantasma della comunità deceduta. Be’, non dico che volessi tenere per mano la esile ragazza bionda, ma non era nemmeno mia intenzione evocare un “vaffanculo”. È andata così, non ci pensiamo. Mentre mi unisco alla fratellanza che invade le vie di Bellinzona, rifletto sulla forma di questo divertimento. Secondo me si sviluppa in due nodi di tensione:
1) Tensione fra proiezione esterna (PE) e discesa nell’intimità (DI);
2) Tensione fra violenza sfrenata (VS) e desiderio profondo di relazioni (DP).

1) PE / DI
La Proiezione Esterna sta nel modo in cui ci stacchiamo dal nostro io, lasciandoci condurre dal ritmo della musica e delle luci, rassicurati dalle canzoni che si ripetono uguali anno dopo anno. Poi c’è la meraviglia, l’incanto di vedere le strade di ogni giorno animate da maschere, volti dipinti, animali antropomorfi, personaggi storici, mostri, fate. Il carnevale ci spinge a uscire, a muoverci. Forse, a pensarci bene, anche la chiazza di vomito si può annoverare fra le proiezioni (o deiezioni) esterne.
IMG_9720La Discesa nell’Intimità, dopo una certa ora, s’insinua negli individui dispersi: li vedi sulle gradinate, o appoggiati contro un muro come la ragazza del vaffanculo. Non sono semplicemente ubriachi; credo che in un angolo del loro inconscio si siano accorti che, nonostante le reiterate danze della pioggia, la siccità non accenna a diminuire. Qualcuno si chiude in una cabina telefonica. Un ragazzo vestito tutto di nero se ne sta accovacciato con la testa fra le mani accanto a una coppia che si bacia solennemente. Un uomo di mezza età è rimasto bloccato nell’autosilo e da dietro la grata implora un agente di farlo uscire. Non posso, risponde quello. L’uomo allora si stringe nelle spalle e dice Tanto fra poco finisce tutto, no? Poi torna nelle viscere della terra.


2) VS / DP
IMG_9722La Violenza Sfrenata sono le risse, ma non solo. A un certo punto mi vengono addosso quattro o cinque energumeni che se le danno di santa ragione, tanto che rischio di prendermi qualche pugno anch’io. Gli agenti della sicurezza bloccano i più facinorosi, in particolare uno travestito da frate e un altro che, con un abito da leopardo, grida Ti ammazzo, zio, giuro che ti ammazzo all’indirizzo di un uomo con il costume zebrato (il che rispetta in un certo senso le leggi di natura). Il carnevale può spaccare le amicizie, incrinare o frantumare le coppie. Se non prendi questo treno – sibila al telefono un uomo stempiato, coperto da un poncho messicano – con me hai chiuso, no, dico sul serio, hai chiuso! In generale, c’è un gran perdersi e telefonarsi e ritrovarsi per poi perdersi di nuovo. Nelle ore che precedono l’alba, con il cumulo crescente di rifiuti, aumenta il Desiderio Profondo di avere qualcuno accanto. Una ragazza in coda al chiosco delle piadine chiacchiera con un gruppo di amici, mentre specifica gli ingredienti e nello stesso tempo digita due messaggi, che riesco a leggere da dietro le sue spalle. SMS.1: Sam ho tanta voglia di vederti; SMS.2: Vorrei davvero dormire abbracciata con te.

IMG_9726In questo incrocio di tensioni, c’è chi tenta di prolungare la notte. Dopo le tende, dopo le Guggenmusik, restano i locali notturni come il Chupito o La Clava. Dai ragazzi – supplica uno vestito da pollo, con il pomo d’Adamo che si muove frenetico – non fate i bastardi, dai, nemm al Chupito – continua a ripetere, come in una cantilena – nemm al Chupito, nemm al Chupito, oh, raga, dai, nemm al Chupito. Sono gli ultimi sussulti della festa, gli ultimi abbracci prima del disgregamento, quando ognuno camminerà da solo sulle strade vuote che portano alla quotidianità. E io, che sono qui nel cuore della festa? Per me è diverso: sono già solo. Mi si avvicina un orso rosa, mi chiede se ho una sigaretta. Te la pago – mi assicura – te la pago due franchi, eh, mica te la voglio rubare. Gliela venderei volentieri, ma non ne ho. Non c’hai neanche una canna, eh? No, mi spiace. E l’orso rosa si avvia sconsolato.
IMG_9725So che il carnevale ha molte facce. Forse io non sto contemplando la migliore. Ci sono i bambini che gettano i coriandoli – anch’io mi travestivo da cowboy – ci sono le famiglie, i nonni, i risotti in piazza. Ma credo che pure in queste manifestazioni diurne, per così dire, si celino le tensioni che ho elencato sopra. Il carnevale presenta sempre una frattura tra esteriorità (anche solo nel concetto di maschera) e interiorità. Non manca neppure la violenza, intesa come trasgressione e improvvisa interruzione della routine, così come il desiderio profondo di relazione, che ci rende difficile essere e restare soli mentre fuori echeggiano i petardi e le fanfare.


IMG_9724Entro ed esco dalle tende, percorro il viale cosparso di immondizia. Sempre di più la solitudine mi avvolge come un telo impermeabile, o meglio, come un blocco di ghiaccio che mi separa dal mondo. Sono sobrio, indosso un paio di jeans, una giacca, una sciarpa. Non conosco nessuno. La mia sensazione supera il qui e ora, mi fa percepire tutto l’irrimediabile peso del mio essere me stesso. Mi accorgo che sto accelerando il passo, come se la velocità potesse vincere l’angoscia. Sorprendo stralci di conversazione: aneddoti, saluti, beghe fra innamorati, qualcuno che si lamenta di avere i coriandoli nella birra, scoppi di risate.
IMG_9727Per terra scorgo un paio di ali rosse, abbandonate come un cuore infranto. Penso alla fatina o alla farfalla o al diavoletto che le ha smarrite. Senza volare, come farà a uscire da questo recinto? Come combatterà la sua lotta contro la solitudine? Quale via misteriosa percorrerà per trovare una mano tesa, una persona con cui condividere la fatica di vivere?
Anch’io sperimento sulla mia pelle le tensioni del carnevale. Soffocato dalla folla, chiuso nel ghiaccio, mi sento colmo di violenza. Quando l’orso rosa torna alla carica, dicendo che può pagarmi anche tre franchi, mi viene voglia di prenderlo a sberle – ne sono io stesso sorpreso, ma è così (VS). Nello stesso tempo ho nostalgia di tutte le persone che conosco, e ho la sensazione di esserne ormai lontano, di essere definitivamente murato nella mia identità (DP). Fuori di casa, fuori dagli orari normali (PE), cerco rifugio nel gesto solitario del camminare, affinché mi ripari dai pensieri più oscuri (DI).

Esco dai confini del Rabadan, lasciandomi indietro le sbarre, come una scimmia che fugga da uno zoo. Mi allontano dalla cittadella blindata, ma la tristezza non mi abbandona. Arrivato a casa – il quartiere è immerso nel sonno – metto gli auricolari e ascolto il sax di Sonny Rollins. Il suo assolo in Serenade mi pare come un grido, come un riassunto di ciò che si annida in fondo all’anima. Rollins ha inciso questo brano a 76 anni: benché la sua voce ruvida sia carica di esperienza, lui è ancora capace di scherzare, con eleganza e perfino con una punta d’impertinenza. Il brano conserva la delicata tenerezza dell’originale, composto da Giovanni Drigo ed eseguito il 10 febbraio del 1900 al palazzo degli zar a San Pietroburgo. Grazie a Rollins la musica si arricchisce di ironia, di swing, e diventa per me un canto di dolore e speranza, posto come suggello a questa notte di coriandoli nella birra e ali di farfalla smarrite.

PS: Da sempre il carnevale è una circostanza che mi affascina, come scrittore. Perciò ogni tanto torno a esplorarlo, a indagarne le luci e le ombre. Avevo già parlato del Rabadan nel romanzo L’uomo senza casa (Guanda 2008). Al momento il libro è esaurito pure in edizione tascabile, ma Guanda lo ripubblicherà fra pochi giorni, con una nuova copertina (ne riparlerò anche qui sul blog).

PPS: Ecco la formula che ho cercato di mostrare in questo articolo (dopo la somma delle due frazioni-tensioni, ho aggiunto un differenziale-imprevisto, perché a carnevale non si sa mai che cosa possa accadere; AC = Atmosfera Carnevale).

Formula Carnevale

PPPS: Serenade si trova nel disco Sonny, please (Doxy 2006); Rollins l’ha interpretata regolarmente fino a ottant’anni e oltre nei concerti dal vivo, come quello da cui ho preso il video che vedete sopra. Il primo video presenta invece Gerry Mulligan al sax baritono, insieme ad Art Farmer (flicorno), Bob Brookmeyer (trombone), Jim Hall (chitarra), Bill Crow (basso), Dave Bailey (batteria); è tratto dall’album Night Lights (Philips 1963). Il brano s’intitola Morning of the carnival; l’originale – Manhã de Carnaval – venne scritto nel 1959 dal compositore brasiliano Luiz Bonfá con le parole di Antônio Maria per il film Orfeu Negro del regista francese Marcel Camus.

PPPPS: Le parole di Bauman provengono da L’etica in un mondo di consumatori, pubblicato da Laterza nel 2010 con la traduzione di Fabio Galimberti.

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Malinconia

Ormai il bollettino meteorologico non dimentica niente: mutamenti di pressione, sole, neve, ogni soffio di vento e ogni percorso di nuvole sono colti prima che nascano, annotati, divulgati, proiettati sotto forma di grafici e frecce colorate. Quello che ancora non si spiega né con le isobare né con l’anticiclone delle Azzorre sono gli improvvisi passaggi della malinconia. Senza cause scientifiche, senza ragioni apparenti eccola che ci raggiunge, nel cuore di un mattino sereno oppure verso sera, all’imbrunire.
IMG_9108In questi casi c’è poco da fare, bisogna attendere che passi. La radio non aiuta e alla tivù non ci sono fanciulle sorridenti che annunciano il ritorno del sereno. Ognuno ha i suoi mezzi non dico per combatterla – è assai difficile – ma almeno per tenerla a bada. Io per esempio, specialmente se arriva di pomeriggio, faccio qualche nota lunga con il saxofono. Non è una vera e propria melodia: a volte poi provo qualche brano, a volte mi limito alle note lunghe. Di solito è la prima parte del mio allenamento, e serve a cercare un timbro, a misurare l’efficienza dell’ancia e la posizione del bocchino. Mi metto in un angolo del mio studio, in modo che le pareti riflettano il suono e possa giudicarne la sostanza: se pieno, limpido, affannato, ricco di armonici o esitante, soffiato, liquido, sghembo. Piano piano, una nota dopo l’altra, cerco di trovare una voce che mi assomigli.
IMG_9109Dal profondo dell’addome, passando per i polmoni e per la gola, il respiro si propaga attraverso il sax, e raggiunge una tonalità, esprime un modo di essere. Se non so stare calmo, le note lunghe sono esitanti, si spengono subito. Allora mi concentro sui dettagli, sui millimetri di ancia e sulla mia posizione, sul fiato, sulla tastiera. Senza che me ne renda conto, per qualche minuto, la malinconia lascia spazio a un re bemolle basso, a un do diesis o a una nota sovracuta, raggiunta arrampicandomi in cima alla scala e poi buttandomi nel vuoto.
Non sono un bravo musicista; non lo sarò mai. Ma avventurarmi in queste terre ignote mi aiuta a tenere a bada i rannuvolamenti dell’anima, e m’insegna che per trovare una voce occorre fatica e ascolto. Soprattutto, bisogna accettare la propria fragilità. Così è pure quando scrivo, quando cioè mi esprimo nel mio campo: in quel caso, trovare una voce è un impegno necessario, al quale sto lavorando da anni, romanzo dopo romanzo. In fondo, se continuo a scrivere, è perché credo che questa sia la mia via d’accesso al mistero del mondo e di me stesso. Nella scrittura, la ricerca di una voce diventa condivisione della voce stessa, perché altri percorrano i paesaggi che ho esplorato nella mia solitudine.
IMG_9104Mi aiuta l’ascolto delle voci altrui. Nella lettura, naturalmente, ma pure nella musica. A volte il suono di un sax mi racconta cose di me stesso per le quali ancora non ho trovato le parole. In una delle sue prime poesie, scritta a ventun anni, Cesare Pavese evoca un’esperienza simile, vissuta durante una passeggiata. Fragorosa sul viale / ecco a un tratto l’orchestra si spegne. / Sull’orchestra in sordina, / canta spietato un saxofono rauco. // Fin la folla si arresta. / Le case indifferenti / gravano il cielo intorno. // Vibra la voce barbara. Il poeta sente che la musica frantuma i suoi pensieri, cancella la stanchezza e lascia l’anima come indifesa. È la mia voce stessa / che echeggia questa notte. / Nell’anima smarrita / canta alto, altissimo la solitudine / una canzone ubriaca della vita. / La stanchezza fuggita, non vivo per un attimo che all’urlo / modulato, esultante. / Tutta l’anima mia / rabbrividisce e trema e s’abbandona / al saxofono rauco. / È una donna in balia / di un amante, una foglia / dentro il vento, un miracolo, / una musica anch’essa.
Il saxofonista Billy Harper narra di aver sognato che stava camminando nella Settima Avenue di Manhattan; con sé aveva un vecchio mangiacassette vuoto. A un certo punto, dal cielo è scesa una gigantesca mano che gli offriva una cassetta. Allora Harper l’ha presa, l’ha inserita nel mangiacassette e ha udito sprigionarsi una melodia bellissima. In quel momento si è svegliato e subito è corso a suonare quella stessa melodia.

Il brano s’intitola If one could only see. Lo trovate nel disco The Roots of the Blues, in cui il pianista Randy Weston (nato nel 1926) suona in duo con lo stesso Billy Harper (nato nel 1943). Il disco è uscito nel 2013: nonostante Weston avesse ottantasette anni e Harper settanta, l’energia che i due sprigionano ha un impeto giovanile e una vitalità senza tempo.
IMG_9103Weston ha uno stile percussivo, intriso di blues in ogni tocco, mentre Harper, che viene dalla scuola texana (è nato a Houston), ha una sonorità rugosa e potente. In lui c’è una dimensione spirituale che ricorda Coltrane e nella quale riecheggiano anche le sue radici gospel. In più, quando Harper trova una nota lunga, ci si aggrappa e la spreme fino all’ultima goccia di sentimento, di significato, di speranza. Certe volte, alla fine della nota lunga, uno si volta a guardare e – come per incanto – non c’è più traccia della malinconia. Oppure, se la malinconia persiste, c’è la consapevolezza di non essere soli. Passando per la musica tutte le nostre malinconie si chiamano e si rispondono, come in un blues, e anche se il dolore rimane, almeno è un dolore condiviso.

PS: La lirica di Pavese fa parte della piccola suite Blues della grande città, scritta nel 1929. La si trova nel volume Le Poesie (Einaudi 1998). Entrambi i brani musicali vengono dal disco Roots of the Blues (Universal 2013), che presenta perlopiù brani composti da Weston, come Blues to Senegal, insieme a If one could only see (composto da Harper) e a qualche standard come Body and soul e Take the A train.

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PPS: L’immagine qui sopra è la copertina dell’album. Le prime due fotografie sono del mio sax; quella posta fra i due video è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005). L’immagine qui sotto è un ritratto di Billy Harper, contenuta nel libretto di The Roots of the Blues e scattata da Jules Allen nel 2013.

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Buon 2017 su Blötzgeul!

img_8891Oggi uscirò in bicicletta. Tecnicamente sarà l’ultima uscita del 2016, ma in realtà è l’inizio della stagione 2017. Negli ultimi mesi infatti ho lasciato la bici in cantina; e di sicuro fra un paio d’ore, quando avrò indossato l’armatura degli abiti invernali e mi sarò avviato, mi scontrerò con l’ultima salita dell’anno, che avrà tutte le caratteristiche insidiose della prima. Il fiato si accorcerà, cigoleranno i muscoli. I chilometri iniziali sono sempre i peggiori: ogni gesto diventerà pesante mentre il cuore, svegliato dal sonno invernale, comincerà a sobbalzare su e giù per il petto. Ecco: questo sarà il mio Capodanno. Poi tornerò a casa, certo, mi riposerò, suonerò il sassofono, credo che ci sarà una cena, fumerò la pipa e forse non eviteremo nemmeno il brindisi a mezzanotte. Ma il vero punto di passaggio per me sarà già avvenuto: pericolante, a mezza costa, infagottato in un giaccone blu, avrò provato ad accogliere il futuro. Non so come andrà. Farò del mio meglio, ma non prometto niente.
fullsizerender-2In realtà, per nessuno il Capodanno arriva a mezzanotte. Ne è una prova questa vignetta di Manu Larcenet e Jean-Michel Thiriet: come spiega la didascalia, sul pianeta Blötzgeul IV gli anni durano un secondo. E con perenne entusiasmo, i due simpatici alieni si stringono la mano ripetendosi vicendevolmente “Buon anno!” a ogni secondo. La vignetta ha l’intento di far sorridere, ma è poi tanto lontana dal vero? Quando finisce un anno e quando ne comincia uno nuovo? Nel corso delle nostre giornate viviamo attimi irripetibili, e i fogli del calendario sono solo un tentativo di mettere ordine in questo magnifico mistero: il tempo che passa.
image1-2In un’altra vignetta, Larcenet e Thiriet mettono in scena un individuo che, con aria un po’ sconsolata, fissa un calendario appeso alla parete. Sul calendario appare la scritta: OGGI. In alto, la didascalia spiega che si tratta di un calendario perpetuo. Possiamo far scoppiare petardi e brindare, organizzare cenette o scatenarci nelle piazze, ma la verità è che, intimamente, non conosciamo il Capodanno. Non percepiamo il 2016 o il 2017 così come non percepiamo il 1993 o il 778. Quello che conosciamo è soltanto l’oggi. Come scriveva il poeta Mallarmé: Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui (nella traduzione lirica di Mario Luzi: “il vivido l’intatto lo splendido oggi è qui”). Ma l’uomo che guarda il calendario perpetuo è sconsolato: forse perché un oggi percepito come continuità inesorabile, come eterno presente privo di senso, sarebbe una condanna. Magari allora il Capodanno può darci una mano a riflettere sul fatto che, sebbene non li percepiamo, passato e futuro esistono eccome, ed esisteranno finché ci sarà il mondo.
copia-di-fullsizerender-2Scrive l’autore Raffaele La Capria: Amo gennaio e tutti gli inizi, anche quando sono un po’ duri, perché quel che inizia e nasce deve sempre superare la barriera del non essere. Amo gennaio perché mi conferma il ritorno della ruota del tempo. Lo amo anche perché è un mese in cui senti che bisogna raccogliere le forze per andare avanti, e richiede perciò concentrazione, progettazione e fantasia.
Voglio condividere con tutti i miei lettori questo augurio per un 2017 ricco di concentrazione, progettazione e fantasia. Sono i talenti che servono a costruire o a ricostruire: e le macerie, materiali o spirituali, oggi non mancano. Costruire significa anche lavorare perché si plachi il conflitto fra passato e futuro, fra realtà e desiderio, fra speranza e delusione.

La pace che mi auguro, per me e per tutti, è quella che si sente in questo brano del pianista Horace Silver. È una ballad lenta, dolce, ma attraversata da un movimento, da una profonda allegria ritmica tipica di Silver (sentite in particolare il suo assolo, a partire da 2.29 e soprattutto da 4.19 a 4.56). Se la serenità è semplicemente una passione smorzata, non serve a nessuno. A nessuno servono risposte che addormentino le coscienze. La vera pace, quando si manifesta in noi o nel mondo, così come nella musica, porta sempre con sé un pizzico d’inquietudine.
Buon 2017!

PS: Le vignette di Larcenet e Thiriet si trovano in La vie est courte (Dupuis 2013; è l’integrale che raccoglie tre volumi usciti tra il 1998 e il 2000). Il verso di Mallarmé è l’inizio di un sonetto pubblicato nel 1885 su La Revue Indépendante e poi incluso nella raccolta Poésies del 1887; la traduzione di Luzi è apparsa nel volume La cordigliera delle ande (Einaudi 1983); ecco i pdf con il testo completo del sonetto e della traduzione. Le parole di La Capria provengono da I mesi dell’anno (Manni 2008, con le illustrazioni di Enrico Job, autore del mazzo di fiori che vedete sopra). Il brano di Horace Silver è tratto dall’album Blowin’ the blues away, inciso per la Blue note a Englewood Cliffs nel New Jersey, il 29 e 30 agosto e il 13 settembre 1959. Insieme a Silver, suonano Junior Cook (sax tenore), Blue Mitchell (tromba), Eugene Taylor (basso), Louis Hayes (batteria).

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