Appunti sulla resistenza

Propongo anche qui un articolo apparso sabato 21 marzo 2020 sul quotidiano svizzero “La Regione” (lo potete leggere nel sito del giornale). Non ho modificato il testo, ma ho aggiunto qualche fiore primaverile.

***

Quando esco a fare la spesa, nelle strade vedo facce tirate e sguardi che misurano le distanze. Abbiamo paura, è normale. Una certa ansia è inevitabile e perfino utile. Mi chiedo tuttavia: come fare perché il panico non abbia l’ultima parola? Più che limitarci a esclamare #iorestoacasa, dobbiamo forse aiutarci a dare un senso a questo limite, a questa immobilità. Non basta sognare il futuro – #andràtuttobene – ma possiamo cercare forme di bellezza anche dentro le circostanze avverse.
Dopo che hanno chiuso le scuole elementari, le mie figlie hanno cominciato a giocare alla scuola. Ognuna delle due impersonava il ruolo di una maestra. Entrambe avevano una classe di una ventina di allievi, a cui si rivolgevano con domande, richieste, rimproveri. Hanno invaso ogni spazio con esercizi, compiti, comunicazioni ai genitori, pagelle, quaderni, carta, colla, matite. Le loro maestre (quelle vere) hanno inviato dei compiti (veri), ma tutto si mescola nel gioco e la mia casa è piena di alunni immaginari: me li ritrovo sul divano, in sala da pranzo, nel mio studio. Prima di andare in bagno, ormai, dico alle bambine: se ci sono allievi immaginari qui dentro, per favore cacciateli fuori! Fra l’altro, proprio in questi giorni avremmo dovuto traslocare, ma naturalmente non è possibile. Siamo ancora qui, viviamo un’altra primavera dentro queste mura a cui avevamo già detto addio.
A volte le mie figlie scorgono dall’altra parte del giardino una loro coetanea. Si scambiano qualche parola con imbarazzo, nonostante abbiano passato intere giornate a giocare insieme. Non sono abituate alla distanza. A me sembra triste vederle così, ma dopo un po’ le bambine cominciano a scambiarsi informazioni. «Quante figlie avevi tu?» chiede l’una indicando le bambole dell’altra. «Sette» risponde l’interpellata, e precisa che «erano tutte appena nate». Io mi complimento per il parto settigemellare e mi abituo all’idea di essere nonno. Ecco una forma di resistenza: affidarsi all’immaginazione per combattere l’angoscia.
Certo, il dolore non si cancella, anche perché la pandemia non è uguale per tutti. C’è chi deve spostarsi ogni giorno per lavorare, chi è senza casa, chi è separato dai suoi famigliari, chi non riesce più a tirare avanti. Non siamo in grado di colmare tutte le sofferenze, ma possiamo fare del nostro meglio per infonderci coraggio. Come scrittore, non capisco se sia meglio offrire la mia testimonianza o il mio silenzio. Se mi avventuro nei social network vengo inondato da un flusso di notizie, teorie, discussioni, litigi, appelli, racconti, drammatizzazioni e sdrammatizzazioni… Questo mi spaventa. Perché proprio io dovrei aggiungere altre parole?
Il romanziere Andrea Pomella, descrivendo sé stesso mentre in questi giorni fa ginnastica insieme a suo figlio, annota che gli è «sembrato di sentire la sua voce da grande che tenta di ricordare. Allora – aggiunge – ho pensato che non voglio perdermi niente, nemmeno queste giornate messe in fila sul davanzale come bottiglie vuote ad asciugare». Anch’io tento come tutti d’infondere vita a queste giornate-bottiglie. Perciò scrivo questo articolo, leggo, riordino la casa, cucino, suono il sax, mi cimento con lo studio dell’arabo (o almeno ci provo…), ogni tanto lavoro alla radio e mi collego con i miei studenti liceali per le videolezioni. L’altro ieri abbiamo letto insieme Vittorio Sereni, e in particolare un testo risalente agli anni Quaranta. Prigioniero degli americani in Algeria, il poeta scopre che è difficile pensare ad altro «poiché questo è accaduto: che i fatti si sono sostituiti alle immagini; che quattro o cinque sentimenti elementari si sono sovrapposti all’immaginazione».
Guardando sullo schermo le facce degli allievi, ho indovinato nei loro sguardi la stessa difficoltà a pensare ad altro. Tuttavia, insieme alla fatica di restare sempre in casa, ho intravisto anche la consapevolezza che non sia inutile, in queste circostanze, parlare di poesia. Sereni racconta che nel campo di prigionia c’era chi scriveva, come lui. Ma subito dopo dice che la sua fiducia è soprattutto «per l’ignoto che tornerà a casa senza preziosi quaderni nel sacco perché osa ancora credere alla pazienza e alla memoria». Ecco un’altra forma di resistenza: credere alla pazienza e alla memoria.
Proseguendo la lezione, ci siamo imbattuti in un perfetto endecasillabo: «Così, distanti, ci veniamo incontro». Un verso composto da Sereni più di settant’anni fa, in una situazione diversa, ci ha raggiunti come un dono (qualcuno ha detto che potrebbe diventare un hashtag: #cosìdistanticiveniamoincontro). Ho deciso che lo prenderò come un’indicazione di rotta. La disponibilità all’incontro, all’incontro vero, può aiutarci a lottare contro la sofferenza, le ingiustizie, la paura, la fatica.
«Così, distanti, ci veniamo incontro.»

PS: Grazie al quotidiano “La Regione” e in particolare a Lorenzo Erroi, che mi ha esortato a scrivere questo articolo nonostante la mia iniziale reticenza. Grazie anche ad Andrea Pomella: la sua immagine di questi giorni come bottiglie vuote mi ha spinto a riflettere sulla mia quotidianità.

PPS: Ho scattato queste fotografie nelle scorse settimane (fino all’inizio di marzo). La prima immagine, invece, ritrae una genziana primaticcia cresciuta nel giugno 2019 sull’altopiano della Greina, a circa 2300 metri sul livello del mare. Ho sempre amato le genziane primaticce (Gentiana verna) perché in luoghi aspri e remoti annunciano lo scioglimento delle nevi. Il loro blu profondo, misterioso, esprime la lontananza e forse anche la promessa di una stagione più serena.

PPPS: Dal sito del liceo, ecco un frammento di video in cui – rispondendo a una domanda sulle lezioni in diretta video – cito anche il verso di Vittorio Sereni.

Condividi il post

15 pensieri su “Appunti sulla resistenza

  1. Un articolo che rileggerò e che, tramite il sito del quotidiano svizzero, condividerò. Mi sembra importante dire anche cose come queste, oggi. Io la conoscevo solo dai suoi romanzi, signor Fazioli, ma se non sbaglio indovino in lei un’indole malinconica? Allora forse lei assomiglia un po’ al Tuareg de “Gli Svizzeri muoiono felici”…

  2. Grazie per questa preziosa testimonianza. Avevo bisogno di un articolo così, in questi giorni di reclusione. Sto in casa, ma certe volte la paura prevale e finisco per desiderare di non vivere questi giorni, o che questi giorni mi fossero toccati quando ero più giovane, tipo una bambina. Ora, a trent’anni, mi sono detta: ma no, la lotta è sempre possibile, la bellezza la puoi cercare sempre, anche in mezzo a una tragedia. Grazie!

  3. Bello il verso di Sereni: ne farò il mio slogan. Anche il racconto, sospeso tra ironia e consapevolezza drammatica. E anche l’immagine dei giorni come bottiglie vuote. Anch’io ho pensato che non voglio perdermi niente. Nemmeno la noia, il dolore, la disperazione, nella speranza che tutto passerà.

  4. Grazie Andrea di avere scritto quest’articolo. Specialmente per l’endecasillabo perfetto di Vittorio Sereni.
    Cari saluti

  5. Bello questo girovagare con la mente assorta guardando dentro e fuori di noi con la calma che ci è imposta. Un momento fa, rileggendo “Marea montante”, un racconto all’interno di “Olive Kitteridge” di Elisabeth Strout, mi sono ricordata di un posto remoto dove, anni fa, volevamo vedere le balene. Non c’erano. Ma mi è tornato in mente un caro amico che era pure lì, in attesa di quei bestioni marini che, inseguiti per dieci giorni, si sono sottratti a noi, turisti curiosi e un po’ gradassi. Il mio amico non c’è più. Sono però contenta di averlo ripensato. Oggi in quest’aria che pesa un quintale.
    Ciao Andrea.
    Lorenza

    1. Grazie, Lorenza, per avere condiviso il tuo pensiero. Proprio oggi, visto che l’aria pesa un quintale, abbiamo più bisogno che mai di queste immagini, di queste evocazioni. Un caro saluto!

  6. Credo sia utile -in questi giorni di tensione ed angoscia vissute diversamente per età o per condizione sociale e lavorativa- sia utile raccontare e portare esperienze e proporre aperture mentali. Molte persone propositive lo stanno facendo, ho appena visto la canzone di Michaela Shiffrin che ringrazia infermieri e medici nel Mondo, anche la pietà della Sofia Goggia per i suoi più sfortunati concittadini bergamaschi, ma anche il progetto della Pro Grigioni Italiano e pensieri da persone sconosciute. Per una volta i mezzi elettronici digitali aiutano al dilà delle possibili devianze negative.
    https://www.rsi.ch/sport/sci-alpino/Ringraziamento-in-musica-per-Mikaela-Shiffrin-12868082.html

  7. Ciao Andrea, non so se anche la casa dei miei nipotini sia piena di alunni immaginari, ma suppongo di si, anzi mi sembra di sentire la piccola dire: “Bianca mi fai vedere il disegno che hai fatto? E tu Ettore oggi sei un po’ monello, stai in punizione!” Io purtroppo li posso contattare solo con videochiamate o con skype. Non poter stare in loro compagnia è una delle tante limitazioni che subiamo in questo periodo di “arresti domiciliari” senza processo. Poi ci sono le ore passate in coda per fare la spesa, le notizie che al figlio toccherà la cassa integrazione ecc.ecc. Ma in mezzo a tanto dolore che ci avvolge con cerchi sempre più stretti, riscopro l’utilità dei mezzi elettronici digitali con i quali prima, per pigrizia o pregiudizi, non avevo dimestichezza.
    Un caro saluto.

    1. Un caro saluto anche a te, Nino. Mi dispiace per la lontananza dai tuoi nipotini e per le cattive notizie. Sono contento però di sapere che stai bene e che tieni duro nonostante il dolore. Ti esprimo, da lontano, tutta la mia vicinanza. (Scrivimi pure anche per mail, se vuoi!)

  8. Caro Andrea,
    grazie per aver condiviso la tua riflessione.
    La tua genziana mi ha fatto ripensare a quella che ho incontrato qualche giorno fa in un racconto di Mario Rigoni Stern:
    ” Ripresi a uscire, nei dintorni del paese, e più lontano, e, finalmente, nei boschi. Incominciai a coltivare l’orto, a far legna. Ma sempre solo e in silenzio. Un giorno scoprii che gli uccelli cantavano ancora e che i pascoli germinavano fiori. […] vidi che erano cardi, ranuncoli, aquilegie, genziane, […].”
    Chissà se anche un solo estratto in prosa, estrapolato dal contesto, può essere d’aiuto.
    Auguriamoci di poter presto “riprendere a uscire” e di poter (ri)scoprire il canto degli uccelli e la bellezza dei fiori!

    1. Cara Marica,
      grazie mille per il pensiero e per il “frammento floreale” di Rigoni Stern. Di sicuro è un aiuto, anche soltanto perché ci aiuta a vedere, a cogliere meglio l’arrivo della primavera, con il suo implicito invito alla speranza.

Rispondi a Andrea Fazioli Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.