You look like my brother

Ecco uno dei miei personaggi preferiti.

C’era un uomo con i capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, per cui dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva addirittura né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non aveva niente! Per cui non si capisce di chi si stia parlando. Meglio allora non parlarne più.

È una storia malinconica narrata dall’autore russo Daniil Charms nel 1937. Ogni tanto torno a rileggerla, e sempre mi stupisce un paradosso: la narrazione consiste nello smantellamento del personaggio, tanto che egli progressivamente scompare, diventa nulla; e tuttavia – proprio perché possiamo parlare di un personaggio, proprio perché possiamo definirlo con un egli – in qualche modo egli esiste davvero. Il personaggio non c’è, ma c’è; e se ne sta davanti a noi con i suoi capelli rossi (che non ha). Sul filo dell’assurdo, la storia apre domande esistenziali. Che cosa definisce quell’insieme di memoria e desideri che si chiama “Andrea”? Nel corso della mia vita mi accadrà quello che accade all’uomo che (non) aveva i capelli rossi: un progressivo allontanamento da ciò che mi è caro, una perdita di ricordi, legami, capacità. Questo vale per tutti noi – persone vere e personaggi fittizi. Allora è meglio non parlarne più? Eppure scattiamo fotografie, suoniamo, scriviamo lettere, romanzi e articoli sui blog. E aggiorniamo i nostri profili sui social network. Insomma, vogliamo esistere. Mi capita di pensarci in viaggio, quando incrocio una persona che non vedrò mai più: è negli incontri, magari fortuiti, che la storia di Charms può cambiare finale. Infatti nello sguardo degli altri, anche in minima parte, appare sempre qualcosa di noi.
C’è un uomo che vive a Monaco, in Baviera. Qualche volta la sera, durante la settimana, indossa gli stivali, un paio di calzoni a tinta mimetica, una maglietta con il disegno di un teschio e un cappellino da baseball. Poi prende la metro e va in un locale dove mettono musica rock. È una discoteca di periferia, in una zona in cui si aprono le voragini degli edifici in costruzione e dove, accanto alle insegne colorate dei locali notturni, brillano i fari di posizione delle gru. Nel locale a volte non c’è quasi nessuno. Ma anche se la pista è vuota, l’uomo non si lascia scoraggiare. Avanza tra le luci fosforescenti e gli sbuffi di fumo, si lascia prendere dal ritmo. Appena c’è un assolo di chitarra, imita il musicista e mima il gesto di suonare.
Nello stesso locale, la settimana scorsa, c’ero anch’io. Guardavo l’uomo con il cappellino mentre fingeva d’imbracciare una chitarra, e ho notato come la musica lo avvolgeva. Lui non si è accorto di me, ma senza volerlo ha lasciato una traccia, tanto che ora si trova qui, nel blog. Le nostre vite si sono appena sfiorate; eppure quell’incontro è riuscito a suscitare un’impressione, un pensiero, un segno scritto.
Nella stessa discoteca, ho visto un uomo che pareva una montagna. Era un ammasso di muscoli, con due bicipiti spessi come un paracarro e una canottiera aderente cosparsa di parole minacciose. Al centro della pista, dondolando al ritmo dei Black Sabbath, avrebbe potuto spaventare chiunque. Invece, a modo suo, voleva fare amicizia. Verso le due di notte ha preso in simpatia un altro avventore, alto la metà di lui. I due hanno ballato l’uno accanto all’altro e si sono dati il cinque. Poi la Montagna ha abbracciato l’uomo più minuto e gli ha detto, con ruvida commozione: You look like my brother, sembri mio fratello. L’ha ripetuto un paio di volte – tanto che l’uomo più piccolo ci ha tenuto a precisare, con un filo di esitazione: But I’m not… Infine la Montagna ha dato una pacca affettuosa al suo nuovo amico (rischiando di mandarlo a gambe all’aria) e ha ripreso a ballare, felice di quel riconoscimento notturno, di quel fratello lontano apparso per un attimo con le fattezze di un estraneo. Come nella storia di Charms, nella nostra vita sono sempre in tensione i poli dell’assenza e della presenza. A volte un’assenza può rovesciarsi in presenza inaspettata, a volte invece una presenza impallidisce, tanto che non arriviamo più a percepirla.
Sempre a Monaco, nel Museo Brandhorst, mi è capitato di vedere un’opera dell’artista statunitense Jeff Koons: Amore (1988), del ciclo Banality. È la riproduzione in porcellana (81.3 x 50.8 x 50.8 cm) di un bambolotto dalle guanciotte rosse e dagli occhietti azzurri, avvolto in un costume da orsacchiotto da cui esce un ciuffo di capelli biondi e ricci. In una mano ha un cuore con la dicitura I love you, nell’altra un vasetto di marmellata. Al collo, un bavaglino ricamato con la scritta amore. Ha un altro cuore disegnato sul petto e se ne sta seduto su un basamento in stile rococò, tra cuoricini, fiorellini e altri oggetti simili. Per il filosofo Arthur Danto, Amore e le altre opere del ciclo sono meraviglie innaturali che dovrebbero piacere a tutti noi, se non fossimo stati educati a svalutarle come banali esempi di kitsch. Non so se quest’opera abbia suscitato in me il conflitto interiore di cui parla Danto. Intorno al bambolotto c’era un gruppo di persone che discutevano animatamente. Qualcuno leggeva dotte spiegazioni da un volantino, altri scuotevano il capo o indicavano i dettagli della scultura. In un certo senso, mi è parso che la vera opera d’arte fossero loro, i visitatori, con la loro presenza e con il fatto che stessero quasi litigando sul senso di quell’inquietante bambolotto.
Secondo Koons non è necessario essere preparati per conoscere l’arte, ma basta accettare sé stessi: Volevo che il ciclo Banality comunicasse alle persone che la loro storia personale, qualunque sia, è perfetta; per creare un’arte eccezionale serve soltanto la propria storia. L’arte che ne uscirà rappresenta l’espansione delle vostre possibilità. Non capisco bene che cosa tutto ciò voglia dire. Forse abbiamo smarrito la nostra parte infantile, capace di meravigliarsi anche davanti al kitsch? Ho provato a mostrare la cartolina con la riproduzione di Amore a una bambina di cinque anni, la quale in effetti non si è posta il problema del kitsch. Però non ha nemmeno commentato l’estetica dell’opera, limitandosi invece a chiedere: 1) se fosse una bimba travestita da orso; 2) come facesse a stare seduta senza rovesciarsi all’indietro.
Anche se l’avessimo smarrita, la nostra parte infantile non può scomparire. È una presenza silenziosa, nel profondo dell’anima, alla quale possiamo attingere in caso di bisogno. Quasi sempre, essa non si manifesta con affermazioni o con apprezzamenti estetici, ma spostando il punto della questione. Ho letto alla bambina la storia di Charms, e lei non ha dubitato nemmeno per per un attimo dell’esistenza del protagonista. Senza battere ciglio, mi ha chiesto: Ma lui dove abita? E dopo qualche secondo ha aggiunto: Di sicuro abita in una casa invisibile.

PS: Daniil Charms nacque nel 1905 a San Pietroburgo; dopo una vita difficile, venne arrestato nel 1941 e morì in un ospedale psichiatrico di Leningrado nel 1942. In italiano è uscito il volume Casi (Adelphi 1990), a cura di Rosanna Giaquinta, in cui si trova il racconto sull’uomo con i capelli rossi. Le parole di Koons (nato nel 1955) sono tratte da Ulrich Obrist, Jeff Koons, Walter König Verlag 2012. Quelle di Danto provengono dal saggio Banality and Celebration. The Art of Jeff Koons, in Unnatural Wonders, Columbia University Press 2007.

PPS: Grazie a Emanuele per alcune delle fotografie di questo articolo.

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11 pensieri su “You look like my brother

  1. Credo che il bambolotto me lo sognerò di notte! 😱 Complimenti per il resoconto di viaggio, come sempre divertente e anche profondo. È proprio vero che spesso la verità si presenta in forma di paradosso…

    1. Grazie, Lara. Sono convinto che la verità, come dicevano i filosofi, sia sempre una compositio oppositorum. Per questo quasi sempre appare come o molto semplice o completamente assurda…

  2. L’uomo con i capelli rossi, la discoteca, la Montagna, il museo e la bambola: che bell’articolo! È la prima volta che commento, così sull’onda della lettura, perché sono ancora emozionata. Questo racconto mi ha portato domande sulle quali rifletterò. In particolare, domande su quanto resti della mia infanzia e su cosa possa restare della mia persona con tutti i miei sogni. Riflessioni forse un po’ malinconiche, ma compensate da un sorriso per la “casa dell’uomo invisibile”… Grazie!

    1. In effetti, la casa dell’uomo invisibile rappresenta la fiducia che il personaggio di Charms non solo possa esistere, ma che per lui ci sia anche una casa, da qualche parte, sebbene non a tutti sia dato d’intuirne la presenza.

    1. Ecco svelato il nome dell’anonima bambina… In effetti, nella misura in cui hanno l’abitudine a frequentare il mondo alternativo del “facciamo finta”, tutti i bambini hanno qualcosa di geniale.

  3. Caro Andrea, il tuo racconto/favola è bello. Mi fa pensare all’urbanistica di oggi – di cui nessuno parla perché sommersi dall’edilizia e dei progetti stradali, più che altro promossi dallo Stato: nel senso che oggi si parla dell’abitare, ma mai del coabitare. Mi spiego, anche se l’hai capito: coabitare è interagire con chi ti sta attorno. Sono magari fuori strada? Dimmelo tu. Ciao e stammi tanto bene! Marcello

    1. Grazie mille, Marcello, per il tuo approfondimento che allarga il discorso all’urbanistica e al senso profondo dell’abitare. Sono d’accordo: bisognerebbe parlare di più del coabitare, che è la chiave di ogni relazione umana in rapporto al territorio. Un caro saluto!

      1. Bello il tema proposto dal Signor Marcello!
        Proprio i prossimi 6 e 7 ottobre (venerdì sera e sabato in giornata), nell’ambito del Premio Moebius, si parlerà di “smart city” e potrebbe essere utile per approfondire. Ora non so se la “città intelligente”, basata sul disporre delle informazioni digitali e del loro utilizzo coi mezzi elettronici, potrà essere una risposta anche solo parziale al tema della coabitazione. Potremo saperne di più nell’appuntamento Moebius a Lugano? http://www.moebiuslugano.ch/

  4. Sfiorare gli altri, far balenare un incontro breve che non avverrà mai più. Ma il breve incontro è storia, potrà viaggiare nella memoria. Fin qui per quanto concerne il bel racconto di Monaco.
    In quanto a Jeff Koons, resta l’impressione che dietro le parole in eccesso dell’artista e di certi critici ci sia dopotutto una astuta, commerciale pesa in giro. Noi oggi guardiamo ancora stupiti, dopo oltre 400 anni, la grazia lieve e potente del disegno inciso di Rembrandt o la penombra luminosa della sua pittura. Fra 100 anni che ne sarà del bambolotto di Koons? Forse cenere di snobismo pretestuoso. Per la bambina di 5 anni di oggi il bambolotto di Koons vale una delle sue bambole. Belle. Che non staranno mai in un museo ma abiteranno, anch’esse, la memoria personale. Senza scomodare l’arte.

    1. Grazie, Davide. Non sono un esperto di arte contemporanea, quindi non entro nel dettaglio. Mi limito a dire che, come ho scritto nel blog, per me la vera opera d’arte erano i visitatori del museo (ma forse è una deformazione professionale da romanziere). Un cordiale saluto!

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