Andrea, Andrea

Ogni tanto, quando intorno a me tutto tace, ho l’impressione di udire una voce che mi chiami. È una sensazione che provo fin da bambino. Credo che la memoria abbia registrato tanto spesso quel richiamo – Andrea! – che talvolta lo riproduce senza motivo, come un’allucinazione sonora. Oppure, forse, è così che si comincia a diventare matti. Ma il paragone con un miraggio non è del tutto appropriato. In realtà so che nessuno mi sta chiamando; semplicemente, ho l’impressione che nel silenzio qualcosa dica: Andrea, Andrea. Mi chiedo se non sia un modo con cui una parte di me stesso voglia mettermi in guardia: una sorta di sentinella interna per svegliare l’attenzione. Ho trovato un’esperienza simile in un’antica e fulminea poesia persiana; eccone una traduzione libera:
La notte scorsa all’orecchio una voce mi ha sussurrato:
«Non esiste una voce che all’orecchio di notte sussurri».
Qualche giorno fa stavo camminando in una strada di case nuove, parcheggi privati e prati verdi cosparsi di giochi. Il cielo era nuvoloso. A un certo punto, ecco la voce: Andrea, Andrea. Alzando gli occhi, ho visto una catapecchia dal tetto in rovina, come se un meteorite ci fosse rimbalzato sopra. Ho pensato: se davvero una voce mi chiamasse, di sicuro proverrebbe da lì. Mi sono avvicinato. Tra le case nuove e la catapecchia c’era una recinzione. Non si vedeva nessuno, ma la porta era socchiusa e c’era una finestra aperta. Sono rimasto fermo per un minuto, poi mi sono allontanato: se sulla soglia fossi comparso io stesso e mi fossi guardato, non avrei saputo che cosa dirmi.
A poca distanza da quella via, in un prato cosparso di pozzanghere e pali che annunciano future costruzioni, si era accampato un luna park. Qualche volta da bambino mi è capitato di andare alle giostre, ma le macchine che sollevano e sballottano non mi sono mai piaciute. Mi affascinano invece i giostrai: come gli zingari o i circensi, sono rimasti fra i pochi a scegliere una vita nomade in un paese e in un’epoca dove, sempre di più, chi non è stanziale viene guardato con sospetto.
Ho varcato la soglia del luna park con la segreta speranza che potesse avverarsi la promessa implicita nel nome: un mondo lunare, dove le cose di quaggiù si rovescino e appaiano sorprendenti. Avevo in mente la scena dell’Orlando furioso in cui il paladino Astolfo, giunto sulla luna in groppa al’ippogrifo, si accorge che lassù tutto ricorda la terra, ma tutto è misteriosamente diverso.
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
Astolfo si addentra nel vallone delle cose perdute, dove si raduna tutto ciò che perdiamo sulla terra: desideri, soldi, amori, gloria, bellezza, giorni e giorni che ci sfuggono tra le mani. Nel vallone Astolfo trova un’ampolla che, sotto forma di vapore, contiene la ragione di Orlando, impazzito per amore.
Io, invece, ho trovato una macchina del tempo (ma non ho osato entrarci), un ruscello dove nuotavano paperelle di plastica, una specie di enorme altalena, diverse prove di forza, una piattaforma girevole, un tirassegno, una bancarella chiamata King of the road dove si vendevano plaques fantaisie. Quest’ultima era uno smercio di targhe (in vendita da quindici a sessanta franchi). Ognuna di esse mi pareva pronta a raccontare una storia: quale genere di uomo o di donna potrebbe mai acquistare una targa con il logo della Volkswagen e la scritta PITBULL? Oppure una con il nome LUIGGI (sic) accanto a un coniglietto? Ho provato a immaginare il tipo umano che potrebbe farsi ingolosire da una targa con la scritta EL TERROR e il disegno di un dito medio alzato… be’, di sicuro sarebbe una storia interessante, sia pure con qualche aspetto scabroso.
Nell’aria c’è un impasto di suoni elettrici e grida, voci amplificate (adesso andiamo più veloci, state pronti!) e canzoni che si ripetono (in particolare, riconosco la versione tedesca di un brano tratto dal film Il libro della giungla della Disney). Non ho visto ample e solitarie selve / ove le ninfe ognor cacciano belve; una belva però c’era, nella baracca del tirassegno: una tigre di peluche, appoggiata di fianco a un grande cuore rosso. Passando, ho incrociato il suo sguardo e per un attimo mi è venuto il sospetto che fosse lei a chiamarmi: Andrea, Andrea. Ma c’era troppa gente per rispondere, così ho tirato diritto e mi sono fermato a osservare gli autoscontri. C’erano gli stessi personaggi di sempre: la Mamma Malvagia (che si accanisce contro chiunque trovi sulla sua strada), il Nonno Pazzo (con accanto una nipotina terrorizzata), l’Adolescente Solitario (a caccia di prede), le Ragazzine Isteriche (possibili prede), i Coniugi Killer (su due macchine diverse, cercano di colpirsi fra di loro: non si capisce se per odio o per amore).
Prima di andarmene, m’inoltro nel labirinto degli specchi. L’impresa è ardua perché, sebbene abbia un aspetto assai rudimentale, si tratta pur sempre di un labirinto: nella sua conformazione assomiglia tanto alla nostra vita (oltre che all’Orlando furioso) da non poter essere preso alla leggera. Dopo qualche passo mi pare di essere in un limbo. Vedo i genitori che dall’esterno incitano i propri figli, vedo i ragazzini che intorno a me guizzano come trote in un torrente, vedo una fanciulla che picchia una testata contro uno specchio. Ma quando mi trovo nel mezzo capisco che, anche se volessi balzare fuori, non potrei: per trovare la via sono costretto a seguire le regole del labirinto.
Nel punto più lontano dall’uscita, dove si nasconde il Minotauro, intuisco ciò di cui si deve essere accorto anche Teseo: il Minotauro sono io. Sono io che dal cuore del labirinto chiamo me stesso – Andrea, Andrea – perché finalmente mi trovi e mi riconosca. Forse dentro ogni eroe, dentro ogni persona esiste una voce che chiama, che continua a chiamare con dolcezza ma con insistenza, come un timore, come una promessa. Che cosa cerca, il Minotauro? La morte, la redenzione, qualcosa che possa medicare la solitudine? È difficile saperlo. Dopo gli specchi deformanti, finalmente, eccomi all’uscita. Mentre mi allontano, mi torna in mente una delle mie poesie preferite: Paura seconda, di Vittorio Sereni.
Niente ha di spavento
la voce che chiama me
proprio me
dalla strada sotto casa
in un’ora di notte:
è un breve risveglio di vento,
una pioggia fuggiasca.
Nel dire il mio nome non enumera
i miei torti, non mi rinfacciai il passato.
Con dolcezza (Vittorio,
Vittorio) mi disarma, arma
contro me stesso me.
Prima di uscire passo accanto alla grande altalena, che compie un giro completo fra gli squittii dei passeggeri. Li vedo dal basso: qualcuno è teso, rigido, qualcun altro ride, qualcuno tenta di mantenere un contegno. Il gestore fuma una sigaretta, con gli occhi fissi alle montagne, indifferente agli strilli che provengono dalla macchina. Incrocio per un attimo il suo sguardo e sono sicuro che una voce, da qualche parte, sta chiamando pure lui.

PS: Sopra ho parlato di pali che annunciano future costruzioni. Tecnicamente, nella Svizzera italiana si usa la parola modina. Lo scopo delle modine è appunto quello di disegnare nell’aria il futuro, indicando il volume che occuperà (o che occuperebbe) l’edificio per il quale è depositata una richiesta di costruzione. Chi desidera cambiare il futuro, può inoltrare ricorso.

PPS: La poesia persiana è citata da Jean-Claude Carrière in Le cercle des menteurs (Plon 1998). L’ottava di Ariosto è la numero settantadue del trentaquattresimo canto dell’Orlando furioso. Paura seconda è tratta dalla raccolta del 1981 Stella variabile (si trova anche in Poesie, Mondadori 1996).

       

       

              

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8 pensieri su “Andrea, Andrea

  1. Anche questa settimana, una lettura appassionante! Non ci crederai, ma anch’io certe volte sento come se una voce mi chiamasse! 😜😂 Specialmente nei giorni di vento.
    Complimenti soprattutto per il labirinto, che mi ha fatto riflettere! 🤔😘

  2. Che bel racconto: ha qualcosa di epico, che va al di là della citazione de L’Orlando furioso… ma al di qua della tigre e degli eroi dei calcinculo. 😉

    1. Più che un racconto, è quasi un reportage (quasi): è tutto vero, comunque, compresa la voce. (In effetti, come scrive Lea qui sopra, nei giorni di vento a Bellinzona le voci corrono). Direi che Gli eroi dei calcinculo è un titolo perfetto… Un caro saluto e a presto, in qualche nuovo labirinto!

  3. Anche a me capita di sentire ogni tanto quella voce! (Beh, naturalmente dice “Claudia, Claudia!”, non “Andrea, Andrea!) Pensavo che fosse una cosa che succedesse solo a me, è bello vedere che anche altri vivono questa esperienza. Ed è molto bello il percorso attraverso il Lunapark, fino a risentire di nuovo la voce nel cuore del labirinto. Complimenti!

    1. Grazie mille, Claudia! Anch’io sono rimasto stupito da quante persone (anche su Facebook o in forma di messaggio privato) mi abbiano scritto di udire talvolta una voce che li chiama. Vien da pensare che il nostro sia un mondo popolato da voci inesistenti e misteriose… Questo non è un male, direi. Anche perché venire chiamati, fin da bambini con il suono della voce materna, è un’esperienza che ci introduce a quella più complessa di venire amati (e di amare). Un cordiale saluto!

  4. Ho letto con grande piacere, trovo bella la capacità di leggere gli altri e le situazioni… in una piazzetta o nel traffico od alle giostre o davanti una statua inquietante.
    Non ho mai sentito voci chiamarmi, ma la riflessione fa riflettere. Forse mi accade perché dove vivo c’è un po’ meno attenzione per gli altri?, non si mettono le modine, si abbattono costruzioni significative per far spazio ad anonimi condomini (tutti uguali, tutti brutti), si spreca il terreno e nessuno ne sa nulla, non si riesce a cambiare il futuro: non abbiamo modine…
    Mi sento colpevole. Dopo la scuola non ho letto l’Ariosto, non ho letto il Tasso, non ho letto il Petrarca. I ricordi dei brani scelti non mi hanno spinto? Sto provando a reagire, ho appena letto con attenzione il De Rerum Natura di Lucrezio, anche Seneca nel De brevitaete vitae. Sono entusiasta.
    Stupendo il pensiero del poeta persiano, una sintesi eccezionale per me.

    1. Grazie mille, Giuseppe. Sono lieto che le mie incursioni negli aspetti bizzarri della quotidianità possano diventare uno spunto di riflessione. Secondo me, non c’è da sentirsi colpevole perché non si è letto Ariosto, Tasso o qualsiasi altro autore. Tuttavia è certo che i classici, se scoperti con fiducia, possono rivelarsi davvero appassionanti: in fondo, come scriveva Giuseppe Pontiggia, sono loro i contemporanei del futuro. Buona lettura, dunque, e a presto!

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