La prima volta che incontrai Anton Čechov ero in vacanza al mare, in Toscana. Mi ero portato un volume di racconti e avevo assaporato il privilegio di trovarmi nel cuore della steppa, avvolto da turbini di neve, mentre intorno a me strillavano bambini e crescevano castelli di sabbia.
Di recente, ho scoperto che due cose interessavano Anton Čechov più di tutto: i circhi e i cimiteri. Così riferisce Aleksej Suvorin, suo editore, amico e compagno di viaggio. Mi colpisce l’accostamento tra la festa e la morte, le risate e il silenzio. In fondo, questo miscuglio è proprio l’atmosfera che si ritrova nei racconti di Čechov. Quando pubblicò la sua prima raccolta, Fiabe di Melpomene, un conoscente lo presentò in un piccolo giornale: È divertente, e questo ti stringe il cuore. Non capita spesso che la prima recensione sull’opera di uno scrittore, in meno di dieci parole, dica già tutto.
Anton Pavlovič Čechov nacque a Taganrog, nella Russia meridionale. Un giorno, quando era bambino, un circo si accampò in periferia. Paul Egorovič Čechov decise di portarci la famiglia ma, nella folla che premeva intorno all’ingresso, gli rubarono il portafogli. Ecco dunque che la famiglia Čechov dovette tristemente tornare a casa. Quell’ignoto borseggiatore potrebbe aver contribuito, senza volerlo, alla storia della letteratura… Sempre a Taganrog, Anton amava guardare i cimiteri nei villaggi intorno alla città: erano circondati da alberi di ciliegio i cui frutti, in primavera, lasciavano cadere minuscole gocce di sangue sulle tombe.
Gli scrittori che amiamo sono con noi anche quando non ce l’aspettiamo. Ci accompagnano nei momenti drammatici, in quelli lieti, perfino in quelli banali. Basta un paesaggio, un rumore di fondo, un odore colto per caso durante una passeggiata.
Un albero nero, spogliato dall’inverno. Perché mi ha fatto pensare a Čechov? Non c’è un legame diretto; o almeno, in questo momento non mi viene in mente. Forse è stata la tristezza di quei rami contorti, sullo sfondo di un cielo nuvoloso, e insieme la bellezza del ricamo, come una mappa geografica o la foce di un grande fiume in un continente inesplorato. È stato un attimo. Il cielo bianco, i rami scuri, la luce invernale. Ho pensato: peccato che Čechov non sia qui con me, perché questo albero è insieme un circo e un cimitero.
L’autrice neozelandese Katherine Mansfield non conobbe Čechov di persona. Ma scrisse nel suo diario: Ach, Čechov! Perché sei morto? Perché non posso parlare con te in una grande stanza scura, a tarda sera, quando la luce è tinta di verde dagli alberi che oscillano di fuori?
PS: I dettagli su Anton Čechov provengono da un libro di Roger Grenier: Regardez la neige qui tombe. Impressions de Tchékhov (Folio). È un’opera interessante. Anche soltanto il titolo, nella sua semplicità, mi pare evocativo. È tratto da Le tre sorelle, dove Tuzenbach dice: Il senso? Ecco, guardate la neve che cade. Che senso ha? Una domanda che, questo inverno, ancora non ci dobbiamo porre…
L’allegra tristezza, la comicità malinconica, la nostalgia del tempo passato, lo struggimento per ciò che poteva accadere e non è accaduto né mai più accadrà… Questo è Cechov, che poi talvolta sfiora anche altro, anche una più tesa drammaticità. Fu così perfetto nella misura del racconto (che conteneva tutto), al punto che non ebbe mai bisogno di scrivere un romanzo. Solo decine e decine di racconti. E il teatro.
Grazie per il pensiero, che condivido. Racconti e teatro bastano per un mondo narrativo vasto e compiuto, senza bisogno di romanzi. Comunque, a dire il vero, da giovane un romanzo Čechov l’aveva scritto… ed era un poliziesco! Lo racconta anche Grenier nel volume che ho citato sopra: pare che la trama fosse molto ingegnosa. Poi però Čechov stesso lo fece sparire…